La chimera creatura mitologica

La chimera creatura mitologica

La chimera è creatura mitologica che si nutre di carne umana con il corpo costituito da parti di più animali diversi.

E’ descritta in vari modi:

1- Secondo la mitologia greca è un mostro con corpo di leone e due teste: una di leone e l’altra di capra e la coda di serpente.

2 –Secondo la scienza araldica invece è un leone con testa di donna

3 –La famosa chimera di Arezzo è identificata come una statua etrusca

4 –Scultura decorativa per edifici simile ai Gargoyles.

Il mito di Chimera

Foto di OpenClipart-Vectors da Illustrazione di una chimera Pixabay

Chimera fu allevata dal re Amissodore e per lunghi anni terrorizzo’ le coste dell’ attuale Turchia, seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio Poseidone, a fermare le scorribande del mitico mostro.

Con l’aiuto di Pegaso Bellerofonte riusci a sconfiggere Chimera con le sue stesse, terribili, armi, infatti “…non c’era freccia o lancia che avrebbe presto potuto ucciderla.”

Allora Bellerofonte immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l’animale.

Come gia’ aveva fatto Perseo con Medusa, anche Bellerofonte abilmente seppe sconfiggere la creatura facendo si’ che la sua forza si ritorcesse contro di lei.

Medusa Foto di emsalgado da Pixabay

La Chimera d’Arezzo

Capolavoro in bronzo della scultura etrusca (V-IV sec.a.C.).

Fu scoperta nel 1553 nelle campagne di Arezzo e restaurata da Benvenuto Cellini, fu conservata per un periodo in Palazzo Vecchio dove Cosimo I dei Medici la volle accanto al proprio trono, fu poi spostata nella villa medicea di Castello perche’ la sua presenza in Palazzo Vecchio era ritenuta funesta.

L’originale e’ adesso conservato al Museo Archeologico di Firenze mentre sono visibili due copie bronzee leggermente piu’ grandi, collocate nella prima meta’ di questo secolo ad ornare le due fontane in piazza della Stazione ad Arezzo.

La chimera creatura mitologica è detta “Khimaira”

Chimera prende il nome dalla caratteristica che la diversifica dai genitori, la testa di capra infatti non trova riscontro ne’ in Tifone ne’ in Echidna e ne diviene cosi’ tratto peculiare. “Infatti Chimera, in greco Khimaira, significa capra”.

E “la capra e’ …il piu’ selvatico tra i domestici e il piu’ domestico tra gli animali selvatici.”

Ed e’ in quest’ottica che si indicano tre significati simboleggiati da Chimera: il leone e’ la forza, il calore e quindi l’estate; il serpente e’ la terra, l’oscurita’ e quindi l’inverno, la vecchiaia; la capra e’ il passaggio, la transizione e quindi autunno e primavera.

E sempre in quest’ottica si legge la dedica a Tinia, il mutevole Giove etrusco, iscritta sulla zampa anteriore destra della Chimera. “Non sia da meravigliarsi quindi che al sommo dio degli etruschi, principio cangiante di ogni cosa, venisse dedicata la multiaspetto velocissima Chimera”.

Fonte:

etr.it/castelli/novelle/chimera.htm sito che non è più attivo.

Curiosità:

Leggi altri articoli sulle strane creature nel sito.

Fonte immagine dell’anteprima articolo: Foto di 6212079 da Pixabay

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Esistono ancora draghi e dinosauri?

di Francesco Lamendola

Tutti conoscono la leggenda di San Giorgio che affronta e uccide il drago per salvare la vita di una bella principessa che sta per esserne divorata.

Essa è riportata dal vescovo Jacopo da Varazze (o da Varagine), vissuto nel XIII secolo, nel suo celeberrimo libro “Legenda aurea”, raccolta di vite di santi che fu letta e riletta dai devoti cristiani per secoli e secoli. Narra dunque Jacopo da Varazze che Giorgio di Cappadocia, tribuno militare romano, arrivò un giorno alla città di Silene, in Libia.

Immagine illustrativa, drago con ragazza. Foto di Xandra_Iryna da Pixabay

Presso la città si estendeva uno stagno “vasto come il mare” dal quale usciva un drago orrendo.

Che divorava uomini e armenti e il cui fiato micidiale uccideva perfino coloro che cercavano rifugio sulle mura.

Gli abitanti, dopo aver fatto alcuni inutili tentativi per ucciderlo, si eran visti costretti a offrirgli in pasto ogni giorno due pecore.

Poi, venendo meno gli animali, una pecora e un uomo, estratto a sorte fra gli infelici cittadini. Un giorno le sorti caddero sull’unica figlia del re.

Egli tentò in ogni modo di salvare la fanciulla dall’orribile fine, ma gli abitanti, essendo entrato ormai il lutto in ogni famiglia, lo forzarono a rassegnarsi.

Così la giovinetta, chiesta la benedizione del padre, uscì tutta sola dalla, città incontro al suo destino, mentre il popolo si accalcava sulle mura.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Fu proprio in quel momento che sopraggiunse Giorgio sul suo cavallo. Vedendola in lacrime, e notando la folla sui bastioni, le domandò che cosa avesse. Ella per tutta risposta lo invitò a fuggire via subito, ma così non fece altro che accrescere la curiosità di Giorgio.

Mentre parlavano ancora, il mostro emerse dalle acque del lago, e subito la fanciulla esortò il santo a fuggire finché era in tempo.

Ma Giorgio partì lancia in resta contro il drago e lo affrontò tutto solo.

Qui Jacopo fornisce due versioni della lotta. Secondo la prima, egli ferì il drago gravemente, tanto che la figlia del re fu in grado di portarlo in città mansueto come un cagnolino.

Il popolo ne fu atterrito, ma poi, tranquillizzato da Giorgio, ricevette in massa il battesimo cristiano; dopo di che il santo uccise il drago.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Seconda versione.

Secondo l’altra versione, Giorgio, fattosi il segno della croce, partì al galoppo contro il mostro e lo uccise al primo assalto.

Ci vollero quattro paia di buoi per portare via il corpo del drago caricato su un carro. Poi Giorgio ripartì, rifiutando dal re una forte somma di denaro e dicendogli di distribuirla ai poveri.

Prima di andarsene, diede al re questi quattro ammaestramenti: di curare le nuove chiese, onorare il clero, ascoltare la messa e assistere gli indigenti.

In quel giorno avevano ricevuto il battesimo ventimila maschi adulti e il re aveva ordinato la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna e al beato Giorgio, dalla quale scaturì poi una fonte miracolosa,. Qui finisce il raccolto del drago. (1)

Naturalmente è possibile interpretare la leggenda in chiave puramente allegorica.

E cioè come una raffigurazione della lotta fra il Bene e il Male.

Che mescola motivi egizi (il dio Horus, a cavallo, che trafigge un coccodrillo del Nilo), persiani (l’eterno conflitto fra il principio della luce, Ahura Mazda, e quello delle tenebre, Ahriman).

I greci (Perseo che libera Andromeda uccidendo il dragone che emerge dalle acque del Mar Rosso) e cristiani (il governatore provinciale Daciano che, per la sua ferocia nella persecuzione dei credenti, era denominato “draco abyssorum”).

Tuttavia, è appena il caso di ricordare che l’archeologo tedesco Koldewey, ai primi del Novecento, rimase profondamente colpito, negli scavi di Babilonia, dai rilievi di creature rettiloidi.

Creature che ricordavano gli antichi dinosauri e che ciò diede origine ad un’ipotesi. Ovvero che gli antichi Mesopotamici, per i loro riti religiosi, allevassero qualche esemplare di sauriani giganteschi. Sopravvissuti all’estinzione della loro specie.

Analoga impressione paiono suggerire le raffigurazioni delle tavolette dei cosmetici del re Narmer. Tavolette conservate presso il Museo Egizio del Cairo. (2)

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Tutto questo senza contare l’enigma delle cosiddette “pietre di Ica”, nel Perù.

Pietre che raffigurano esseri umani e dinosauri come se fossero contemporanei.

Delle quali è stato dimostrato che una parte sono sicuramente dei falsi, ma per un’altra parte non è ancora possibile esprimere un giudizio scientifico definitivo.

Certo, secondo le nostre attuali conoscenze i dinosauri si sono estinti decine di milioni d’anni fa. Ma non potrebbe darsi che alcune specie siano sopravvissute fino a tempi storici?

Dopotutto, dopo che nel 1938 è stato ripescato vivo e vegeto, belle acque del Sud Africa, il pesce “Celachantus”. Pesce che la scienza ‘ufficiale’ sosteneva estinto da milioni di anni. Quindi bisognerebbe essere molto cauti nell’escludere una eventualità del genere, per quanto remota e improbabile essa possa apparire a prima vista.

Dobbiamo adesso ricordare le sporadiche segnalazioni, da parte di viaggiatori ed esploratori europei, nel XIX e all’inizio del XX secolo, di animali mostruosi. Animali che vivrebbero nelle paludi e nei laghi dell’Africa centrale. (3)

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Gli avvistamenti avrebbero avuto luogo nel Camerun, nel lago Vittoria, nel Lago Bangweolo (Zambia).

Dunque attraverso una vastissima fascia di territorio dall’Oceano Atlantico fino in prossimità dell’Indiano (4).

Fra i testimoni oculari citiamo esploratori più o meno noti. Come l’inglese Sir Clement Hill, il tedesco Alfred Aloysius Horn, mentre altri ne raccolsero notizie indirette (tracce nella foresta, racconti degli indigeni).

Secondo tali descrizioni, specialmente quelle dello Hill, che disse di aver visto l’animale da vicino, nel Lago Vittoria, esso aveva approssimativamente l’aspetto e le dimensioni di un dinosauro erbivoro. (5)

Ora, fra i laghi e le foreste dell’Africa centrale e le regioni vicine al Mediterraneo si estende l’immenso Deserto del Sahara. Deserto che costituirebbe una barriera invalicabile a un eventuale rettile di grandi dimensioni.

Ma, in tempi antichi, esso era ricoperta da foreste o, quanto meno, da praterie. Il processo d’essiccamento non era ancora del tutto concluso nei primi secoli dell’era cristiana.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

La fauna dell’odierno Sahara era quella della foresta o della steppa. Come è testimoniato in maniera diretta dai graffiti del Tibesti e di altre zone riproducenti bufali, giraffe, elefanti (6).

Ed in maniera indiretta dalle fiere che i Romani catturavano per gli spettacoli del circo. Il leone oggi è scomparso a nord del Sahara (7), come lo è pure l’ippopotamo dall’Egitto.

Tornando alla leggenda di San Giorgio, la tradizione afferma che il drago da lui ucciso era un mostro acquatico, che viveva in un vasto lago.

Una coincidenza invero notevole coi racconti di Hill, Gratz, Schonburgk, Glober.

Una ricerca in questa direzione sarebbe interessante, perché consentirebbe di affacciare l’ipotesi di una interpretazione non allegorica, ma naturalistica. Interpretazione differente del racconto della lotta fra San Giorgio e il drago, anche se, per ovvie ragioni, ben difficilmente potrebbe uscire dal campo delle mere ipotesi. E tuttavia, per scrupolo di completezza, vogliamo suggerire anche questa possibilità.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Né si creda che solo dall’Africa centrale giungano notizie di avvistamenti di animali mostruosi simili a dinosauri. In effetti, esse provengono da tutto il mondo.

Nel lago Labynkyr, In Siberia, un rettile gigantesco fu avvistato fin dal 1953. Ed il protagonista dello strano incontro fu proprio uno scienziato: ilgeologo V. Tjerdokherbov. (8)

Si può dire anzi che ogni continente vanti il suo “mostro acquatico”.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

O anche più di uno.

  • Nel Nord America vi è ad esempio il mostro del lago Champlain, al confine tra Canada e Stati Uniti (9).
  • Vi è il mostro di  Manipogo Canada e quello di Slimey Slim (in due diverse località degli Stati Uniti occidentali.
  • In Sud America vi è il mostro del Lago Bianco,in Cile.
  • In Oceania vi è il mostro di Waitorek nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda.

L’Europa ne vanta almeno cinque:

  • Il famosissimo “Nessie” del Lago di Loch Ness (Scozia)
  • Il serpente del Lago Storsjö (Svezia)
  • Il mostro di Hvler (Norvegia
  • Ed addirittura due la piccola Irlanda: quello di Pooka e quello di Piast. (10)

Ma i “mostri” europei potrebbero salire a sei (e anche di più). Tenendo conto, ad esempio, del serpente mostruoso che fu visto in Friuli, presso Sarone, nel 1963 e di cui si occupò anche la stampa, nell’estate del 1963. (11)

In realtà, l’elenco completo degli avvistamenti sarebbe lunghissimo e potrebbe continuare per pagine e pagine.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Viista la sezione strane creature del sito per approfondimenti.

Ancora nel XVII secolo un illustre scrittore italiano, il padre gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), ferrarese, aveva raccolto la tradizione relativa ad un drago.

Drago che, in passato, infestava le contrade dell’isola di Rodi, uccidendo uomini e bestie. Finché un cavaliere gerosolimitano non l’aveva affrontato e ucciso, dopo essersi lungamente preparato al cimento.

“Assai delle volte avrete udito mentovare il famoso dragone apparito nelle campagne di Rodi. Mentre quell’isola si teneva da cavalieri ora di Malta, e la spaventosa bestia ch’egli era.

D’un informe corpaccio grande quanto un mediocre cavallo. L’orribil capo tutto cosa di drago. Bocca grande e squarciata, denti acutissimi, occhi focosi e sanguigni.

E due grandi orecchie spenzolate, e un fiato di mortalissimo veleno. Del corpo, il dosso bigio. E ne spuntavan due ali carnose e unghiute, che dibatteva e svolazzava per ispavento, non perché punto il levasser da terra.

Tutto era macchiato di rotelle, verdi, nere, sanguigne, fosche: segni e fior di veleno.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Armato poi d’un cuoio a modo di corazza, impenetrabile ad ogni arme. Perocché tutto era un commesso di piastrelle e di maglie di durissima tempra. Fuor solamente il gran ventre livido e gialliccio.

Andava su quattro piedi e le due branche aveva armate di terribili unghie. Dietro si traeva una lunghissima coda, che non gli era punto oziosa, o inutile al danneggiare. Che d’essa, come d’una serpe, valevasi ad avvinghiare e stringere con più giri evolute; oltre alle forti percosse, con che atterrava chi d’alcuna incogliesse.

“Solitudine e desolazione era tutto il paese a grande spazio intorno al colle di S. Stefano.

Alle cui falde egli abitava dentro una palude, ivi medesimo ove era nato, d’un marciume d’acqua scolatavi e imputridita. E in mostrarsi colà intorno uomo o animale, il dragone assassino gli era sopra a sbranarlo, e pascersi delle sue carni.

Un tal mostro, che il capriccio de’ dipintori e de’ romanzieri nol saprebbono fantasticare a fingerlo più spaventoso. Ebbe cuore e spirito di assalirlo fra’ Diodato da Gozzone. Quegli che poscia fu il ventesimosesto gran Maestro dell’Ordine di que’ cavalieri.

Ma non fu, perciò, che il desio della gloria per sé e del ben pubblico (ch’era liberar l’isola da una si nocevole pestilenza) il rendesse più animoso che consigliato. Portandolo via come di lancio ad avventurarsi a quell’impresa.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Egli venne da Rodi al suo castello Gozzone. E quivi apparecchiatosi d’un caval generoso e di due gran cani da presa. Ogni dì per più ore isperimentava se ed essi davanti ad un dragone posticcio.

Ma quanto il più far si poté, lavorato a somiglianza del vero. E dentro vi un uomo ben destro a maneggiarlo, imperversando, avventandosi, impennando, gittando le branche.

E facendo quelle terribili forze in difese e in assalti che poscia il vero dragone.

Intanto il cavaliere, armeggiandogli intorno col buon cavallo, e aizzandogli i cani, toglieva a questi il timore e dava loro ardire. E sé addestrava, in una finta schermaglia, al come di poi far davvero.

Così stato in quella scuola finché gli parve poterne oramai uscire al fatto. Navigò col cavallo e i cani a Rodi, e occultamente ad ogni altro (a cagion del divieto che ve ne avea) fuor solo a due servidori. Che lasciò dalla lungi a cedere il fatto e null’altro, presentossi alla disfida del drago. E ben s’avvide ai fatti quanto l’essersi addestrato percosì lungo tempo gli tornasse giovevole; perocché bastò, ma in verità appena.

“Incontrollo a tutta corsa del cavallo con un ben assestato colpo di lancia.

Esistono ancora draghi e dinosauri?

Ma, come l’avesse corsa in uno scoglio, non fe’ piaga, e si fe’ ella scheggia.

Dunque smontato a pie’ gli fu mestieri di prender la zuffa con lo scudo imbracciato e la spada in pugno a faccia a faccia col drago:

il quale, tutto dirittosi sopra i due ultimi piedi, tal gli menò d’una branca un colpo sopra lo scudo con cui il cavaliere si riparò che ne vinse il braccio e disarmoglielo.

Ma come volle Iddio, l’assannare che un di que’ valorosi cani fe’ il drago in parte dove orribilmente gli dolse. Ed al medesimo tempo, entrargli il cavaliere con due penetranti stoccate dentro alla gola.

Gliel batté a’ piedi vinto:

anzi il vinto e il vincitore, quello addosso a questo e presso a schiacciarlo col peso, caddero amendue sul campo. Ma riscosso a gran pena di sotto l’orribil fiera,il valoroso tornossene con la vittoria re col merito di quel degno titolo d’Extintor draconis.

Che di poi ebbe ad eterna sua lode incisogli nel sepolcro fra’ gran Maestri di Rodi.” (12)

L’episodio per Bartoli

Certo, si può immaginare che, per il Bartoli, tutto l’episodio non sia altro che un’allegoria dell’uomo giunto in punto di morte (il cavaliere) Che deve affrontare le ambasce della morte corporea (il drago), allenandosi adeguatamente dal punto di vista spirituale.

Ma è altrettanto possibile, per non dire probabile, che egli abbia raccolto una tradizione esistente sulle sponde del Mediterraneo orientale, forse di origine bizantina o magari ancora più antica, e che su di essa abbia poi costruito la sua parabola morale.

Il che ci riporterebbe, ancora una volta, nell’ambito geografico dell’Asia Minore e in quello della Cristianità d’Oriente, donde appunto la leggenda di San Giorgio e il drago aveva preso le mosse.

Se poi vogliamo risalire ancora più indietro, scopriremo – non senza una certa sorpresa – che l’esercito romano di Attilio Regolo, sbarcato in Africa (odierna Tunisia) durante la prima guerra punica, aveva avuto a che fare con un immenso serpente.

Il serpente molestava l’accampamento delle legioni presso le sponde del fiume Bagradha. Al punto che, per averne ragione, non bastando lance e spade fu necessario far entrare in azione addirittura le balliste.

L’episodio di cui ci occupiamo si colloca nel 256 o 255 a. C.

Quando, nella fase iniziale della Prima guerra punica, i consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio Vulsone, sconfitta una flotta cartaginese al Capo Ecnomo, erano sbarcati in Africa con un esercito. Ed avevano marciato audacemente contro la capitale nemica.

Richiamato Vulsone in Sicilia per ordine del Senato, Regolo con 40 navi e 15:000 uomini aveva proseguito da solo le operazioni. Battendo i Cartaginesi e inducendoli a chiedere la pace. (13)

Questa non venne conclusa perché il comandante romano, imbaldanzito dai successi, volle porre condizioni eccessivamente dure.

Le vicende belliche subirono poi un capovolgimento e l’esercito romano andò incontro a un tragico destino. Ma questo esula dal nostro orizzonte. Noi faremo un passo indietro e torneremo all’inverno 256-55.

Quando i legionari, sbarcati a Clypea (o Clupea), a est di Cartagine, erano impegnati nelle operazioni d’assedio della capitale punica. Racconta dunque Valerio Massimo che “in Africa, apud Bagrada flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohibèret”.

Il passo completo è tratto da un libro perduto di Tito Livio (14) e recita così:

“In Africa, sulle rive del fiume Bagrada, v’era un serpente d’una tale mole che impediva all’esercito di Attilio Regolo dei servirsi di quell’acqua. Molti soldati erano stati presi dalle sue enormi fauci. Ed maggior numero strozzati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano non riuscivano a ferirlo.

L’uccisione del mostro con le balestre

Alla fine con le balestre lo si finì facendo piovere sul suo corpo da ogni parte gran quantità di pesanti pietre.

A tutte le coorti e le legioni era apparso oggetto di terrore assai più della stessa Cartagine. E quando il suo sangue si mescolò all’acqua del fiume e le esalazioni pestifere del suo cadavere infestarono tutta la regione, l’esercito fu costretto a spostare il campo. Aggiunge, inoltre, Tito Livio che la pelle del serpente, che misurava centoventi piedi, fu mandata a Roma.” (15)

Questo incontro fra gli esseri umani e una creatura animale mostruosa è uno dei meglio documentati dell’antichità. Per cui ci soffermeremo un po’ su di esso.

Ne parlano, infatti, moltissimi autori latini.

Le Storie di Quinto Elio Tuberone

Aulo Gellio, l’autore delle celeberrime Notti attiche, da parte sua, nel riferirlo dice di averlo trovato nelle Storie di Quinto Elio Tuberone.

 “Tuberone lasciò scritto (?) che avendo il console Attilio Regolo, durante la prima guerra punica, posto i propri accampamenti sulle rive del fiume Bagrada, dovette ingaggiare un combattimento lungo e aspro contro un serpente di inusitata grandezza. Il quale aveva la propria dimora in quei luoghi.

Dopo una lunga lotta di tutto l’esercito per mezzo di balestre e catapulte, avendolo ucciso, ne mandò a Roma la pelle lunga 120 piedi.”(16)

Ora, poiché noi sappiamo che un piede romano era una misura di lunghezza equivalente a circa 30 cm:

se ne ricava che la pelle del “serpente” ucciso dai legionari di Regolo doveva misurare 120 x 30= 3.600 cm., ossia 36 metri!

Prima di domandarci a che razza di creatura dovesse appartenere una pelle di tali dimensioni, diamo la parola a quello, fra gli autori antichi, che si diffonde con la maggiore abbondanza di particolari su questo episodio.

Cioè lo spagnolo Paolo Orosio (inizi del V sec. d..), amico e collaboratore di Sant’Agostino.

Lo spagnolo Paolo Orosio

Nelle sue Storie contro i pagani (Orosii historiarum adversus paganos libri septem), egli scrive:

“Il console Manlio lasciò l’Africa con la flotta vittoriosa e fece ritorno a Roma con ventisettemila prigionieri e grandi prede. Regolo, al quale era stato conferito l’incarico di continuare la guerra. Marciò con l’esercito e pose il campo non lontano dal fiume Bagrada.

Qui molti soldati, che erano scesi al fiume per rifornirsi d’acqua, furono divorati da un serpente di eccezionale grandezza. Perciò Regolo decise di andare con l’esercito a combattere la bestia.

Ma a nulla servirono i giavellotti e ogni sorta di proiettili che gli scagliavano addosso. Giacchè, come se avessero colpito una “testuggine” formata dagli scudi inclinati, i giavellotti scivolavano sulla mostruosa compagine delle squame.

Respinti in modo sorprendente dal corpo della bestia, che non riuscivano minimamente ad offendere. Perciò Regolo, vedendo che un gran numero dei suoi soldati era dilaniato dai morsi del serpente o atterrato dai suoi attacchi furibondi o anche tramortito dall’alito pestilenziale, fece entrare in azione le balliste.

La conformazione dei serpenti.

Le quali, colpendo con sassi grossi come macine la spina dorsale della bestia, spezzarono tutta l’articolazione del suo corpo. Questa infatti è la natura del serpente.

Che mentre sembra privo di piedi, è però provvisto di squame e di costole. Che sono disposte uniformemente dalla sommità del collo fino in fondo al ventre e che, quando si muove, gli servono le prime quasi da unghie e le seconde da zampe. (?)

Questa conformazione fa sì che in qualunque parte del corpo, dal ventre fino alla testa, il serpente sia colpito, rimane paralizzato e non è più capace di muoversi.

Giacchè, dovunque il colpo arrivi, esso gli spezza la spina dorsale, che imprime il movimento alle costole e a tutto il corpo. Perciò anche questo serpente, che per tanto tempo nessun giavellotto aveva potuto scalfire, fu immobilizzato dal colpo di un sasso.

Di modo che i romani poterono attorniarlo e ucciderlo facilmente con le armi. La sua pelle – a quanto si dice, misurava centoventi piedi – fu portata a Roma e per qualche tempo suscitò la meraviglia di tutti.”(17)

Il mostro del fiume Bagrada.

Prima di Orosio e prima di Aulo Gellio, ma un po’ dopo Valerio Massimo (che dedica la sua opera all’imperatore Tiberio), il filosofo Lucio Anneo Seneca aveva anch’egli ricordato il mostro del fiume Bagrada.

“Quel feroce serpente dell’Africa – scrive – che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombole.

Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né da qualunque proiettile scagliato da mano d’uomo.  Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni”. (18)

Che conclusioni possiamo trarre da tutto quanto fin qui esposto?

Forse la scienza ufficiale, la biologia in primo luogo, dovrebbe essere cauta prima di liquidare come “impossibili” gli indizi della sopravvivenza.

La leggenda di San Giorgio e il drago

In epoca storica, di grandi rettili di cui la leggenda di San Giorgio e il drago. Il racconto del dragone di Rodi e i più recenti avvistamenti in numerosi luoghi del pianeta potrebbero essere altrettanti segnali.

Prudenza e puro amore per la ricerca, per i fatti:

anche se i fatti sembrano smentire un aspetto significativo del paradigma evoluzionistico oggi imperante.

Perché dare torto ai fatti per preservare le teorie scientifiche è il modo più sicuro per andare incontro a delle brutte figure. Ciò che – negli ultimi decenni – non è certo accaduto poche volte

Note:

(1) Jacopo da Varazze, Legenda aurea, Firenze, 1952, pp. 599-604.

(2) Cfr. Erich von Däniken, “Il giorno del giudizio è già cominciato”, Milano, 1998, spec. pp. 43-46.

(3) Cfr. Leo Talamonti, Questi ‘mostri’ non conformisti, in Scienza e Vita, Roma, novembre 1961, pp. 40-47.

(4) Cfr. Peter Kolosimo, Il pianeta sconosciuto, Milano, 1970, pp. 210-15.

(5) Cfr. Michael Bright, Mokele Mbembe: Dinosauro sopravvissuto cercasi, in Airone, Milano, maggio 1985, pp. 122-27.

(6) Cfr. Attilio Guadio, La via del Sahara, in L’Universo, Firenze, gennaio-febbraio 1968, pp. 29-65.

(7) “Tra il 1873 e il 1883, 202 leoni furono ufficialmente abbattuti in Algeria. L’ultimo leone vu fu ucciso nel 1891 a Souk-Ahras. Il maestoso re degli animali sopravvisse, invece, più a lungo nel Marocco.

In particolare nelle zone boscose del Medio Atlante rimaste quasi inesplorate fino ai nostri giorni. Lì trovarono rifugio, almeno fino al 1922, gli ultimi leoni dell’Africa settentrionale, la cui regressione segue dunque, con perfetto parallelismo, la progressiva avanzata della civilizzazione”:  Così Jean Dorst, Prima che la natura muoia, ed. it. Milano, 1969, p. 92.

Note:(8) Peter Kolosimo, op. cit., pp. 220-222.

(9) Jean-Jacques Barloy, Animali misteriosi, fra cronaca e leggenda, Roma, 1985, pp. 90-92.

(10) Cfr. C. Angeletti Meirano-M. Fugiglando Cumino, Dear Penfriend, Torino, 1988,p. 63.

(11) Precisamente, il quotidiano Il Giorno: riportato in Peter Kolosimo, op. cit., pp. 215-16.

(12) Daniello Bartoli, L’uomo al punto, in: Luigi Russo, I classici italiani, vol. 2, Firenze, 1947, pp.315-18.

(13) Cfr. Antonio Brancati- Girolamo Olivati, Il Mondo Antico, vol. II, Roma, Firenze, 1957, p. 153.

(14) Livio doveva parlarne nel libro XIX (che è tra quelli perduti), ma non risulta dall’Epitome.

(15) VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, I, 8, 19. Trad. di Luigi Rusca , 2 voll., Milano, 1972.

(16) AULO GELLIO, Noctes Atticae, VII, 3. Trad. di L. RUSCA, 2 voll., Milano, 1968. Il passo di Tuberone sta in Fragm. 8, Peter.

(17) PAOLO OROSIO, Historiarum Adversus Paganos, IV, trad. di Aldo Bartalucci, in Adolf Lippold, 2 voll., 1976.

(18) LUCIO ANNEO SENECA, Ad Lucilium Epistularum Moralium Libri XX, X, 82. Trad. di Giuseppe Monti, Milano, 1966.

Articolo scritto da Francesco Lamendola

Approfondimenti:

Visita la sezione del sito su le strane creature e criptozoologia.

Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Fino alla prima metà del Settecento, il “secolo dei lumi“, le Alpi erano considerate il regno di ogni sorta di draghi e animali favolosi.

E non solo nell’immaginario popolare dei valligiani, ma anche da parte di insigni studiosi.

Uno di questi fu il celebre naturalista svizzero Jakob Scheuchzer (Zurigo, 1672-ivi, 1733).

Che nella sua opera scientifica “Itinera alpina”, oltre a tracciare una prima ricognizione meteorologica, geologica, mineralogica, botanica e zoologica delle Alpi, attesta e cataloga tutta una serie di animali mostruosi.

A cominciare dai “draghi volanti”, suffragando le sue affermazioni con tutta una serie di documenti e testimonianze estremamente circostanziati.

Sorge allora spontanea la domanda:

“Quando, esattamente, queste creature favolose – nella cui esistenza l’umanità ha creduto per secoli e millenni – hanno abbandonato le nostre montagne per emigrare nei regni della fiaba e della leggenda?

Oppure non se ne sono affatto andate. Ma siamo noi che abbiamo perso la facoltà di vederle? Così come abbiamo perso la facoltà di vedere tante altre cose che pure circondano la nostra vita con la loro presenza. Presenza talvolta benefica e amichevole, tal’altra ostile e minacciosa?”.

Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Drago sputafuoco Foto di Noupload da Pixabay

Eppure?

Anche ai nostri giorni, di tanto in tanto, le pagine di cronaca di informano che qualcosa di strano è stato visto, lassù, nelle alte vallate alpine.

Come accadde a quel signore di un piccolo paese presso Sacile, in Friuli.

Nell’estate del 1963 – si à trovato faccia a faccia con un serpente dalle dimensioni mostruose. O come gli sporadici avvistamenti del “Tatzelwurm”. Un’incredibile animale per metà rettile e per metà mammifero. Si tratta di una sorta di gigantesco “verme con le zampe”, che gli studiosi di criptozoologia sospettano essere tutt’altro che immaginario.

Da sempre, si può dire, le montagne, e in particolare le montagne europee per eccellenza, le Alpi, sono nell’immaginario popolare la residenza o il rifugio di specie animali strane e bizzarre. A volte decisamente mostruose; né si tratta di un caso isolato.

Il grifone, ad esempio, il mitico animale dal corpo di grande uccello ma dalla coda di rettile, anzi di drago,era così noto nel Medio Evo, fra le genti alpine, da divenire lo stemma della città di Belluno.

Nel capoluogo della Carinzia, Klagenfurt, al centro della piazza principale si erge la celebre scultura del drago, che è diventato il

simbolo della bella cittadina.

Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Lo stemma e simbolo di Klagenfurt è, fin dal 1200, un drago. Nel 1590 lo scultore Ulrich Vogelsang ricavò da un unico, enorme blocco di pietra , un immenso drago, per la fontana che i cittadini avevano deciso di erigere in piazza.

Quarant’anni dopo, si direbbe che si siano vergognati del loro stemma perché Michael Hönel vi aggiunse un Ercole che affronta il drago e sta per ucciderlo, Cosa magari da fare al bivio, ma non in piazza. E forse indicativa dello stesso complesso d’inferiorità che suscita negli abitanti di Klagenfurt la mancanza di grattacieli.

Il drago non è ancora stato debellato e tiene le fauci spalancate,. Non tanto, credo, per ferocia, quanto per protestare contro l’abuso che gli è stato fatto?”

Così scrive Monk Gibbon nel suo libro L’Austria (Milano, Garzanti, 1963, p. 103).

Naturalmente i soliti scientisti, che non credono ai draghi e tanto meno ai draghi volanti.

Non prendono per buona l’idea che sulle montagne della Carinzia vivesse un vero drago. 

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

E hanno subito pronta una bella spiegazione razionale

La leggenda del drago sarebbe sorta in seguito al ritrovamento del teschio di un elefante lanoso dell’era glaciale. La cui cavità frontale, corrispondente alle fosse nasali, sarebbe stata scambiata per un grande, mostruoso occhio.

Oppure potrebbe essersi trattato del teschio di un rinoceronte lanoso. In ogni caso, di un grande mammifero dell’ultima glaciazione che gli ignari valligiani dell’alta Drava avrebbero scambiato per il cranio di un autentico drago.

“In Austria, nel cuore della Carinzia – scrive Guido Ruggieri (ne la Terra prima di Adamo, Milano, Mondadori, p. 13) – sta la città di Klagenfurt il cui nome significa guado dei lamenti.

Narra una leggenda che in antico un terribile drago aveva insidiato per lungo tempo un guado presso la città. Un passaggio obbligato per i viaggiatori di transito.

Nel Medioevo questa leggenda era ritenuta pura verità perché del drago era stato ritrovato il cranio. A quanto sembra nell’anno 1335. Sulla piazza principale di Klagenfurt fu inaugurato, nel 1636, un monumento al drago. Era rappresentato con la lunga coda ritorta, ali da pipistrello e fauci spalancate nell’atto di lanciare fiamme. Fatto notevole, la testa del mostro era stata modellata sul vero cranio. Esso esiste tuttora, in ottimo stato, nel museo della città.

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Però è, semplicemente, ciò che resta di un grande rinoceronte coperto di peli, vissuto in Carinzia in tempi ben più remoti di quelli del drago presunto.

“Draghi, unicorni e grifoni furono del resto la leggendaria fauna di numerose località europee. Che avevano offerto, accidentalmente, avanzi di mammiferi scomparsi. Ma da allora è passato molto tempo e la fantasia non si sbriglia più.

Ai voli dell’immaginazione è subentrato il fascino della ricerca. Appoggiato a una solida scienza, la paleontologia, il cui nome vuol dire letteralmente ‘discorso sugli esseri antichi’.”

Come dire.

Meno male che, grazie alla Scienza, abbiamo abbandonato il tempo delle leggende per trasferirci sul solido terreno dei fatti certi e dimostrati. Del resto, il fatto che nel Museo di Klagenfurt sia conservato il cranio di un rinoceronte lanoso non è, a ben guardare, una spiegazione certa della leggenda del drago.

Sarebbe un po’ come dire che l’esistenza della Sindone “spiega” l’origine del mito di Gesù Cristo. A questi signori non viene mai in mente che, forse, il ‘mito’ (come lo chiamano loro) potrebbe anche essere nato da un fatto storico. E che poi, in un secondo momento, una serie di fatti e circostanze sono stati interpretati – magari erroneamente – come altrettante conferme di quell’evento originario.

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Il monte Pilatus, presso Lucerna, era il luogo più temuto dell’intera catena alpina.

Secondo una leggenda, lo spirito di Ponzio Pilato – il procuratore romano che lasciò condannare Gesù Cristo – era stato relegato sul fondo del lago che giace ai piedi della montagna.

Ebbene, tale leggenda era ancora talmente viva fino al 1700, che una legge del Consiglio comunale di Lucerna proibiva tassativamente di gettare sassi nelle acque del lago del Pilatus.

Per non risvegliare lo spirito inquieto dell’antico magistrato, che avrebbe potuto divenire pericoloso per gli abitanti del luogo?

Lo stesso tipo di credenze sono diffuse nelle vicinanze delle alte catene montuose dell’Asia.

Specialmente dell‘Himalaia, “regno degli dei”, ove si aggira lo Yeti. E’ una creatura misteriosa che, talvolta – come nel caso del professor Dyhrenfurth – è stata vista da vicino anche da testimoni occidentali.

Uomini d’indubbia esperienza e di solidi studi nelle nostre migliori università (cfr. il nostro articolo L’enigma dello Yeti, elusivo abitatore delle nevi eterne).

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Quello che il grande pubblico ignora è che tale credenza, per quel che riguarda l’Europa, è stata condivisa da studiosi e insigni scienziati fino a tempi relativamente assai recenti.

Ancora nel 1700, in pieno “secolo dei Lumi”, fior fior di naturalisti erano pronti a giurare sulla realtà dei draghi volanti e di altre creature meravigliose e spaventevoli. Suffragando le loro convinzioni con una serie ben nutrita di testimonianze oculari.

Riportiamo un passo del bel libro di Serge Bertino Guida delle Alpi misteriose e fantastiche (Milano, Sugar & C., 1972, pp. 24-27).

“Le montagne, instabili e solcate da gole profonde e buie, furono da sempre l’habitat d’elezione dei più strani animali che la fantasia popolare abbia saputo creare.

Lo stesso sant’Agostino era convinto che le Alpi fossero popolate da straordinari draghi volanti e ancora nel 1726 uno scienziato tedesco, lo Scheuchzer, non esitava a consacrare a questi animali interi capitoli del suo “Itinera Alpina”.

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Non stupiamoci quindi se ancor oggi scopriremo nelle nostre vallate le storie straordinarie di tutta una fauna fantastica ora amica ed ora nemica dell’uomo.

“Essa non è che il lontano ricordo di un’epoca in cui tutto era mistero anche se bisogna sottolineare che l’ultima apparizione?

Provata d’un drago volante nelle Alpi svizzere risale solo al 1934.

Con ogni probabilità alla base degli innumerevoli ricordi di questo pauroso animale esistevano alcuni fatti reali. Un certo numero di scienziati moderni sembrerebbe abbastanza incline a pensare che il drago volante delle Alpi fosse una specie di oloderma cavernicolo, ora estinto. Semplice ipotesi? Realtà? Non lo sapremo mai.

“Quasi certamente, però, le Alpi divennero durante un lungo periodo della loro storia un vero e proprio rifugio di specie animali.

Il vero nemico, l’uomo

Che vi si ritirarono, probabilmente per sfuggire l’uomo, il vero nemico di sempre. A causa di condizioni di vita divenute per loro insopportabili.

Quando il clima freddo dell’epoca glaciale lasciò il posto ad una natura che andava riscaldandosi lentamente, molti animali preferirono seguire il ritirarsi dei ghiacciai. Risalendo verso le cime dove alcune specie riuscirono addirittura a sopravvivere sino ai giorni nostri.

“Le leggende alpestri infatti non annoverano tra i loro temi solo quelli che gravitano intorno agli animali fantastici. Ma si innestano sovente su una realtà faunistica precisa. Accanto ai draghi trovano posto le storie mirabolanti delle aquile reali, degli stambecchi, dei camosci e delle marmotte.

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

“Un acutissimo spirito d’osservazione ha permesso agli uomini dell’alpe di percepire alcuni intimi atteggiamenti della fauna alpina. E di appropriarsene e di inserirli nel patrimonio culturale della loro terra.(?)

“Per coloro che, come chi scrive, hanno avuto la fortuna di imbattersi in uno stambecco solitario.

Su una stretta cornice di roccia e sotto l’infuriare d’un temporale, l’appellativo che gli hanno dato gli uomini dell’alpe, ‘Gran Diavolo’. Non è una facile estrapolazione sentimentale, ma l’unica definizione valida per il più straordinario animale che vive ancora tra le rocce. (?)

“Le meraviglie della natura non appartengono ai singoli ma a tutta l’umanità. E’ quindi normale che il nostro spirito ne abbia fatto un vero e proprio serbatoio di esperienze stupefacenti.

“Dicevamo che uno scienziato del calibro dello Scheuchzer credeva fermamente all’esistenza di draghi alati fra le montagne alpine.  E non li considerava affatto creature leggendarie o allucinazioni di qualche donnetta spaventata da chissà mai quale esperienza di pericolo, reale o immaginario che fosse.

Ma chi era questo naturalista svizzero-tedesco, che ci ha dato il primo studio rigorosamente scientifico delle Alpi?E’ il primo dell’età moderna dopo quelli di Konrad Gesner (soprannominato “il Plinio tedesco”) di ben due secoli prima, e cioè del pieno Rinascimento?

Ecco come lo presentano Alberto razzanti e Roberto Almagià nella “voce” a lui dedicata dalla Enciclopedia Italiana (edizione del 1949, vol. XXXI, p. 76):

“SCHEUCZER, JOHANNES JAKOB. 

Medico e naturalista svizzero, nato a Zurigo il 2 agosto 1672, ivi morto il 23 giugno 1733.

Fu uno dei primi a compiere viaggi scientifici nella regione alpina, soprattutto per la ricerca ela raccolta di minerali e di fossili vegetali e animali.

In quei viaggi, compiuti fra il 1702 e il 1711 (l’edizione più completa è quella comparsa a Leida nel 1723 col titolo “Ouresiphoites elveticus, sive itinera per Elvetiae Alpinas regiones facta”. Cercò per la prima volta di applicare su larga scala il barometro alla misura delle altezze, ma ottenendo risultati incerti e contraddittori.

A Zurigo iniziò anche nel 1728 regolari osservazioni meteorologiche, pubblicandone i risultati, e compié altresì osservazioni sistematiche sulle variazioni del barometro a Zurigo e sul S. Gottardo (1728-31).

Dando in luce tabelle utili per i calcoli altimetrici.

.Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

La sua maggiore opera, una vasta storia naturale generale della Svizzera, rimase incompleta: dei tre volumi pubblicati.

Uno riguarda l’orografia (1716), il secondo le acque (1717), il terzo le meteore e i minerali (1718). Importante è anche la sua grande carta delle Alpi (1712).

Oltre a queste opere e alla curiosissima e voluminosa “Jobi Physica sacra” (1721), lo Scheuchzer molto scrisse in materia di fossili. Dei quali in un primo tempo negò l’origine organica, per poi ritenerli rsti del diluvio biblico.

Storicamente interessante è la memoria “Homo diluvii testis et ?e?s?opo?.

Nella quale lo Scheuchzer descrisse come umano uno scheletro, che il Cuvier riconobbe più tardi esser quello di una salamandra gigantesca (“Andrias Scheuchzeri ” Tschudi).

“bibl.: G. Cuvier, in “Biografia universale antica e moderna”, LI, Venezia, 1829.

“Bisogna aggiungere che l’opera Itinera Alpina era corredata da numerose tavole illuystrative e che una serie di incisioni raffiguravano anche gli animali fantastici. La cui presenza, accanto a quella di animali da noi oggi ben conosciuti, di piante, di fossili, di cristalli e minerali, tanto ci stupisce e ci lascia perplessi.

Alcune di esse sono riportate nel bel volume di Massimo Cappon Alla scoperta delle Alpi (Milano, Mondadori, 1982, pp. 70-71).

In una vediamo un ritratto dello stesso Scheuchzer, ufficiale sanitario a Zurigo.

Ma, soprattutto, naturalista e pioniere della geofisica alpina, con tanto di parruccona di stile seicentesco e una dicitura. Dicitura dalla quale apprendiamo che egli fu, tra l’altro, membro della Royal Society di Londra.

Vi sono poi tre incisioni che raffigurano altrettante creature mostruose, ciascuna riportata con le precise circostanze del suo avvistamento e, dove possibile, col nome dei testimoni.

Jakob Scheuchzer e i draghi volanti

Il drago alato

La prima è quella di un “drago alato”.

Ossia una delle undici diverse specie di draghi alpini che illustrano l’opera di Scheuchzer. Ha la forma di un grande serpente, dotato a metà del corpo di ali membranose simili a quelle del pipistrello; dalla bocca emette fiamme.

Secondo lo studioso svizzero, le principali differenze fra “draghi” e serpenti sono queste:

i draghi hanno dimensioni maggiori, a vole presentano barba e baffi Con un triplice ordine di denti, pelle o squame di colore nero o grigio.Dotato di una grande apertura delle fauci, lugubre e tremendo verso sibilante. Ed infine, la capacità di aspirare, con l’aria, gli uccelli in volo per farne banchetto.

La seconda incisione raffigura l’immenso drago “dalla lingua bifida ” .

Drago che apparve ad un certo Johannes Egerter di Lienz sull’Alpe Commoor, sbucando da dietro una roccia. Mentre il contadino stava recandosi al lavoro.

La scena del drago.

La scena dell’apparizione è raffigurata con ingenua drammaticità. Il testimone è definito da Scheuchzer “vir honestus et septuagenarius”.

Come dire che un anziano di settant’anni non dovrebbe aver voglia di rendersi ridicolo e di giocarsi la reputazione conquistata in tutta una vita di probità.

Benché venisse accecato dall’alito pestifero che il drago gli soffiava contro. Il contadino riuscì a fuggire e corse in paese, ove venne medicato agli occhi. Un segno tangibile che la sua avventura non era stata solo immaginaria.

Scheuchzer, inoltre, cita un’altra testimonianza, quella di un fatto accaduto nel 1649. Dove grandi draghi dall’alito di fuoco furono visti chiaramente sul monte Pilatus, presso Lucerna.

La terza incisione è quella di un drago dal corpo di serpente. Maa anche, stranamente, dalla testa di gatto. Che si avvolge sulle sue numerose e orribili spire, drizzando il capo minaccioso ai piedi di una roccia da cui pendono festoni di rampicanti.

Quest’ultima creatura sarebbe stata osservata, almeno così si dice (l’uso del condizionale è d’obbligo, date le circostanze), nel XVIII secolo sul Frunsenberg, in Svizzera.

Che cosa possiamo dire di tutto questo?

Saremmo portati a sorriderne e a passare oltre con una scrollata di spalle, ma?

C’è qualcosa che non torna. Oltre al numero delle osservazioni e alla serietà di studiosi come Scheuchzer, che se ne sono occupati.

Bisogna dire che perfino ai nostri giorni, per chi legga attentamente le pagine di cronaca dei giornali, vi sono delle sorprese. Sorprese in agguato per il cittadino dell’età della tecnica, dei computer e dei telefonini di ultima generazione.

Qua e là c’è ancora chi vede “cose”, cose o esseri che non dovrebbero esistere – almeno in base alle nostre idee ultrapositiviste e ultrascientiste.

Come quei due cacciatori che sulle sponde del lago di Como, nel 1946, si trovarono alle prese con un pesce mostruoso emerso dalle acque del lago, Pesce dalle dimensioni sconvolgenti e la bocca spalancata.

Evento che fece scalpore e sul quale ci ripromettiamo di ritornare a suo tempo.

Anche perché – sporadicamente, a distanza di anni – pare che qualcuno abbia visto di nuovo una creatura insolita nuotare nelle acque del Lario

Burla o immaginazione

E tale persistenza non depone a favore della burla o dell’immaginazione.

Ma parrebbe suggerire una esperienza reale, per la quale non era disponibile, forse, un linguaggio adeguato né un atteggiamento di intelligente apertura da parte di chi coltiva la scienza.

Un abitante di Sarone, presso Sacile (allora provincia di Udine, oggi di Pordenone)ad esempio, il signor Toffoli, nell’estate del 1963 si è trovato a faccia a faccia con un serpente dalle dimensioni mostruose. Quali non dovrebbero esisterne, sulle Alpi (o, come in questo caso, ai piedi della catena montuosa) né in alcuna altra parte d’Europa.

A suo tempo se ne occupò anche la stampa locale e noi stessi lo abbiamo ricordato nel nostro articolo

Gli enigmi della criptozoologia:

il serpente gigantesco del fiume Bagradha.

Il noto scrittore Peter Kolosimo, vero collezionista (un po’ come l’americano Charles Fort) di fatti “dannati”, ossia non spiegati dalla scienza e non catalogabili fra le esperienze in qualche modo ammissibili allo stato attuale delle nostre conoscenze. Almeno secondo la cultura accademica lo ha riferito in uno dei suoi libri di maggiore successo.

Il pianeta sconosciuto (Milano, Sugar & C., 1969, pp.215-216). Dal quale ci piace riportare integralmente il brano che ad esso si riferisce.

Il Tatzelwurm

“Abbiamo accennato (?) all’enorme ‘verme con le zampe’ – il Tatzelwurm -, avvistato nel 1934 sulle Alpi svizzere ed austriache. Ebbene, un su parente potrebbe forse aggirarsi nei pressi di Sacile, in provincia di Udine ed aver scatenato un pandemonio nell’estate del 1963.

“Si tratterebbe d’un gigantesco serpente lungo circa quattro metri, che uscirebbe da una buca facendosi precedere da un rettile di dimensioni normali.

“La voce dell’esistenza del mostro – scrisse, a quel tempo, il quotidiano il Giorno – si è sparsa nella vallata ed ha acquistato sempre maggior credito, anche se in un primo tempo i più pensavano ad un parto di fantasie troppo accese.

“L’ultima testimonianza è quella del gestore d’un bar di Sarone (una frazione di Sacile).

Il signor Antonio Toffoli, il quale, deciso a veder chiaro nella faccenda, si è munito di un grosso randello ed è andato nella zona desolata dove si dice che il serpente sia solito comparire.

Si è appostato vicino alla tana del rettile ed ha atteso. Dopo due ore, ha udito un acutissimo fischio ed ha visto uscire il ‘serpente pilota’, seguito dal bestione.

Il signor Tofffoli

“È un serpente enorme – dichiara il signor Toffoli. – ha la testa grossa come quella d’un bambino, il collo sembra un palo telegrafico, il suo sibilo stordisce?”.
“Egli avrebbe vibrato contro il rettile una randellata. Andata però a vuoto, dopo di che sarebbe fuggito?

Proprio come avrebbe fatto, due anni più tardi, un contadino tedesco davanti al muso di “qualcosa che assomigliava sia ad un serpente che ad un verme” Sbucato d’improvviso da un buco della stalla.”

Ma che cosa sarebbe, esattamente, il Tatzelwurm?

Creatura elusiva ed emblematica che di quando in quando, sbucando fuori apparentemente dal nulla, fa la sua comparsa davanti a qualche sbalordito valligiano delle Alpi?

Il criptozoologo Jean-Jacques Barloy, nel suo eccellente libro Animali misteriosi.

Invenzione o realtà? (Roma, Lucarini Editore, 1987, p. 175 sgg.), ne traccia questo ritratto sulla base dei non frequenti avvistamenti.

“Con il tatzelwurm, arriviamo a uno dei misteri più irritanti della criptozoologia. Il serpente di mare, i mostri lacustri, i grandi gatti, le Bestie assassine.

Certo, ci hanno messi vicini a enigmi molto vicini a noi. Ma stavolta ci troviamo di fronte a un problema straordinario:

esiste ancora, nel cuore dell’Europa, un animale terrestre sconosciuto di discrete dimensioni?

“Tatzelwurm, che in tedesco significa ‘verme con le zampe’, è il più celebre dei nomi dati a questo animale, che figura da secoli nelle cronache delle regioni alpine.

Esso infatti vivrebbe nelle Alpi tedesche, svizzere, austriache, italiane e forse anche francesi.

Inizialmente i Tatzelwurm compaiono come draghi mitologici. Ma ecco che nel 1779, un certo Hans Fuchs muore per un attacco cardiaco dopo essersi trovato faccia a faccia con uno di essi in località Unken, nei dintorni di Salisburgo.

Il dipinto della creatura

I suoi genitori hanno lasciato una pittura rappresentante la scena:

i tatzelwurm si presentano come grosse lucertole con quattro zampe a tre dita. È questo l’aspetto che attribuiscono loro quassi tutti i testimoni.

La forma generale dell’animale è quella di una lucertola o di una salamandra di grosse dimensioni. Ha una grande bocca con denti appuntiti, gli occhi sono ben visibili, il collo è corto e appena abbozzato. Il corpo, piuttosto robusto, misura tra sessanta centimetri e un metro, e pare che certe volte possa superare queste dimensioni.

L’animale è in genere biancastro, più raramente brunastro.

Gli esemplari osservati nei boschi sembrano più scuri di quelli avvistati in ambiente roccioso. Un solo osservatore parla di un tatzelwurm nero a macchie gialle.

“Le descrizioni della pelle variano molto:

secondo alcuni testimoni è nuda, secondo altri, squamosa, altri, per finire, segnalano un corto pelame.

Ancora più strane sono le variazioni nel numero delle zampe, almeno secondo gli osservatori:

il tatzelwurm è descritto, a seconda dei casi, con quattro zampe, senza zampe o con le sole zampe anteriori.  E’verosimile che l’animale ne possieda quattro. La coda non supera un quarto della lunghezza totale; secondo certi testimoni è tozza, secondo altri, affusolata.

“Devo questa descrizione all’inchiesta condotta sull’animale condotta da Ulrich Magin.

Il quale ha censiti circa quaranta incontri con presunti tatzelwurm dal Settecento ai giorni nostri. Verificatisi soprattutto nel Tirolo (Wurmbachtal, Spielberg), nella zona di Salisburgo, negli Hohe Tauern, in Svizzera (Berna, Uri) e in Baviera (Ruhpolding).

Va precisato che per certi abitanti di queste regioni si tratta di un animale del tutto reale, che fa parte della fauna montana come la marmotta o la vipera.

È stata persino pubblicata una sua foto, dovuta a uno svizzero di nome Balkin: ahimé, l’animale che vi figura non sembra molto naturale, si direbbe di porcellana.

“Il tatzelwurm vivrebbe tra i cinquecento e i duemila metri di altitudine, penetrando nelle grotte, anzi passandovi gran parte della sua vita, il che spiegherebbe il fatto che sia tuttora sconosciuto.

Un esempio:

nel 1929, un maestro austriaco sta esplorando una grotta nei pressi di Landsberg. Quando scorge un animale serpentiforme che, allungato su un mucchio di humus in putrefazione, lo fissa coi suoi grandi occhi. Egli tenta di afferrarlo, ma invano: il tatzelwurm, avvertendo il pericolo, si eclissa in una cavità.

“Ho raccolto di recente una strana informazione:

ogni primavera, in Val d’Aosta, un tatzelwurm uscirebbe da una sorgente con il salire delle acque, e sarebbe così visibile per qualche tempo.
“Un elemento importante depone a favore dell’esistenza di questo animale:

le osservazioni si collocano tutte durante la buona stagione; il tatzelwurm, infatti, è sicuramente una specie ibernante.

Ebbene, alcune testimonianze parlano appunto di esemplari introdottisi nei granai per passare l’inverno nel fieno.

Si assicura che il tatzelwurm emette sibili, che è spesso aggressivo, che è capace di avventarsi al viso delle persone?

Lo scheletro

Nel 1924, uno scheletro di questo animale sarebe stato trovato nei pressi di Murtal.

Una delle ultime osservazioni, risalenti all’estate del 1963, si situa nei pressi di Udine:

arecchi testimoni affermano di aver visto una specie di serpente che era solito stare vicino a una cavità e che era accompagnato da un ‘serpente-pilota’?

Era grosso come un palo telegrafico e gli è stata attribuita una lunghezza (senza dubbio esagerata) di quattro metri. Mandava una specie di sibilo Uno dei testimoni, Antonio Toffali [sic], che aveva tentato di ucciderlo, si diede alla fuga spaventato?”.

Ma se il gigantesco serpente di Sarone esiste.

Se esiste il tatzelwurm; se sono esistiti, sulle Alpi, i draghi di cui parlano Jakob Scheucher e tanti altri, allora sorge spontanea la domanda.

Quando, esattamente, queste creature hanno deciso di scomparire alla nostra vista, di sottrarsi ai nostri sensi?

Oppure siamo noi che abbiamo smarrito la capacità di vederle, così come abbiamo perduto la facoltà di vedere tante altre cose?
Una cosa è certa.

Vi sono degli esseri umani che conservano questa seconda vista e che, per mezzo di essa, scorgono creature d’ogni genere, a volte amichevoli ed a volte paurose. Tali creature sono i bambini (cfr. il nostro articolo I bambini vedono cose che noi non vediamo).

È possibile che recuperare tale facoltà di percezione non sia cosa impossibile. E come affermava Nietzsche, quando ci si è stancati di cercare, bisogna imparare a trovare.

Francesco Lamendola

Approfondimenti:

Visita la sezione del sito su le strane creature e criptozoloogia.

 

Il Nuckelavee mostro scozzese

Il Nuckelavee mostro scozzese

Scozia

Nuckelavee, il mostro piu’orribile della Scozia, fa parte del piccolo popolo ed e’ un elfo dell’oscurità’. Quindi è una creatura molto pericolosa per l’uomo. Nuckelavee fa parte della mitologia celtica.

Il suo aspetto è orribile, privo di pelle ed ha l’aspetto di un gigantesco cavallo marino con zampe terminanti a forma di pinna, testa,  ed occhi sono giganteschi. La testa del Nuckelavee è dieci volte più grande si quella di un’uomo. La bocca è come quella di un maiale ed il busto è come quello di un essere umano. Secondo la leggenda Nuckelavee dovrebbe possedere un’unico occhi circondato da una fiamma rossa.

Nuckelavee odia i ruscelli di acqua fresca e sono l’unica salvezza per chi lo dovesse incontrare. E’ sufficiente attraversare un ruscello per non essere più inseguiti dalla creatura mostruosa. Questa creatura prova una forma di repulsione per l’acqua dolce, ama solo l’acqua salata di mare.

Quando si impenna innalzandosi sulle zampe posteriori mostra il suo dorso ricoperto di vene gialle in cui scorre sangue nero. I nervi e i muscoli sono ben visibili e la testa enorme e mostruosa sembra a fatica sorretta dall’esile collo. Una figura umanoide senza braccia e senza gambe lo cavalca.
Narrano che sia un’essere che vive principalmente nel mare all’Isola Orcadi.

Ma talvolta abbandona il mare per andare sulla terra ferma dove causa la rovina di interi raccolti e bestiame solo con il fetore del suo alito.

Il suo alito emana un orribile fetore ed è velenoso.

Nuckelavee non si nutre di carne umana, semplicemente uccide le persone causando cerestie di raccolti e facendo ammalare il bestiame con il suo alito.

Il Nuckelavee mostro scozzese

Nuckelavee è il mostro più orripilante della mitologia celtica e si dice di non nominare il suo nome ad alta voce per non invocarlo o attirare la sua attenzione.

Di seguito una riproduzione del mitologico Nuckelavee:

Riproduzione dell’artista Jonathan Franz.

Curiosità:

Visita la sezione del sito strane creature e criptozoologia

Irkuiem orso gigante Siberia

Irkuiem orso gigante in Siberia

Sten Bergman zoologo svedese nel 1920 vide a Kamchatka (Siberia), una pelle di orso che differiva notevolmente dalle pelli di orso comune della zona.

L’animale doveva essere molto grande i peli corti anzichè lunghi come di norma negli orsi del Kamchatka, il colore della pelle era un nero pece.

Le tracce ritrovate suggerivano un orso enorme ma molti asserivano che si trattasse di un comune orso Ursus arctos piscator.

L’orso in questione fu chiamato Orso di Bergman in onore del suo scopritore il quale iniziò ad interessarsene ma senza risultato. Dell’orso non si ebbero piu’ notizie e si ritenne estinto nel 1936.

Nel 1980 testimonianze di un orso da parte dei nativi di Chukchi e di Korjak di Kamchatka giunsero all’orecchio di Rodion Sivobolov. L’animale, un orso, era chiamato Irkuiem(che letteralmente significa arti verso il basso) oppure kainyn-kutho(orso di Dio).

Quest’orso era descritto come un animale con gli arti anteriori più lunghi di quelli posteriori con un rigonfiamento di grasso nel ventre che spesso toccava a terra dando l’idea che l’animale indossasse un paio di “pantaloni abbassati”.

L’animale in posizione eretta doveva essere molto alto ed imponente.

Irkuiem orso gigante in Siberia

Teorie dell’epoca associavano Irkuiem ad un Arctodus simus, un orso preistorico che viveva in America del Nord e Russia.

Teoria avvalorata dal biologo russo N.K. Vereshchagin, che ebbe anch’egli una descrizione dell’orso da parte dei nativi, ma altri biologi bocciarono questa teoria perchè secondo loro Irkuiem non aveva molto in comune con l’orso preistorico Arctodus simus.

Spedizioni sono state effetuate in seguito alla ricerca dell’oso chiamato Irkuiem o kainyn-kutho con la speranza da parte di zoologi e biologi di trovare discendenti di questo aniamle ancora in vita ma senza risultati di nessun tipo.

Nel 1996 il signor Orlov, cacciatore che asseriva di catturare esemplari di Irkuiem inviò una foto di una pelle(ritenuta in seguito di un comune orso bruno )ai giornali locali ma senza rilasciare mai prove sicure dell’esistenza dell’animale.

Nè un cranio, nè denti ad esempio, affermò che non vi era più traccia dell’orso di Bergman a Kamchatka da parecchi anni dichiarandolo estinto.

Il mostro descritto da Sten Bergman esisteva o era solo un comune orso Ursus arctos piscator?

Vedi foto.

Ursus arctos piscator

Questo è un mistero legato al mondo della criptozoologia.

Vedi anche:

-L’orso nel folclore e nel mondo magico del medioevo russo di Aldo C. Marturano .Il re degli animali, sia che volino sia che striscino sia che corrano su quattro o due zampe rimase invece l’Orso (Ursus arctos sp. o medved’ ) e su questa bestia in particolare appunteremo la nostra attenzione...continua QUI

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Francesco Lamendola

Il grande pubblico occidentale è relativamente informato circa l’enigma antropologico posto dallo Yeti.

Molto impropriamente noto come “l’abominevole uomo delle nevi”, in quanto è stato segnalato, sin dalla fine dell’Ottocento (ma gli indigeni lo conoscono da sempre) alle alte quote. Ad esempio della regione posta a cavallo fra Nepal e Tibet.

In realtà, se esiste, deve certamente vivere al di sotto del limite delle nevi perenni, se non altro perché, diversamente, non troverebbe il cibo con cui sostentarsi.

Qualcuno è anche informato circa l’esistenza di un “cugino” americano dello Yeti.  E’ noto fra gli Indiani della fascia costiera tra la California settentrionale e la Columbia Britannica meridionale.

Passando per gli Stati di Oregon e Washington, localmente noto come “Sasquatich”. Della cui esistenza esistono non solo testimonianze verbali, ma anche una ripresa cinematografica – peraltro controversa – che lo riprende piuttosto da vicino.

Quasi nessuno, però, a quanto ci risulta – almeno in Italia – è a conoscenza di un altro “parente” di questa strana famiglia di ominidi o di gigantopitechi. Parente che vivrebbe, o quantomeno avrebbe vissuto, in una remota e selvaggia regione dell’Isola del Sud in Nuova Zelanda.

Terra già nota per altri misteri mai del tutto svelati. Come la scomparsa improvvisa della “Tribù Perduta” dei Maori .

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

rappresentazione di un BigFoot. Foto di Bernell MacDonald da Pixabay

La riscoperta dell’uccello takahe.

La riscoperta di un curioso uccello creduto ormai estinto -il takahe – e, forse, per la sopravvivenza di qualche esemplare minore del Moa (Dinornis maximus). Si tratta di un gigantesco struzzo che poteva raggiungere l’altezza di tre metri e mezzo e che un tempo popolava tutto l’arcipelago neozelandese.

Il Maerorero

Si tratterebbe del Maeroero.

Ovvero una sorta di “uomo selvaggio” che, per i Maori della regione dei Catlins, era molto più di una semplice leggenda. Però quanto inquietante?
Anche “l’uomo della strada” più distratto e meno informato sa che, da ormai più di un secolo, corrono voci abbastanza insistenti intorno alla presenza di uno strano essere alle pendici della grande catena himalaiana. Un’essere in parte scimmiesco ed in parte umano, cui è stato affibbiato il nome assai poco lusinghiero di “abominevole uomo delle nevi”.

Ma che è conosciuto dalle popolazioni locali semplicemente come lo Yeti.

Si tratterebbe di una grande creatura umanoide dal corpo estremamente villoso.

Alto almeno due metri e dotato di una forza straordinaria. Tanto forte da poter uccidere uno yak con le mani nude, per poi cibarsi delle sue carni crude.

Immagine di uno yak Foto di Simon da Pixabay

Numerosi nepalesi avrebbero fatto l’incontro con lo Yeti.

Specialmente pastori e contadini dei villaggi più alti e isolati. Incontro non sempre pacifico. Specialmente per quel che riguarda le greggi di yak, capre e altri animali domestici. Ma mai comunque mortale per gli esseri umani, dai quali la misteriosa creatira preferirebbe tenersi il più possibile lontana. (1)

Allo stesso modo, una parte almeno del pubblico occidentale sa, più o meno, che nella zona costiera del Nord America centro-settentrionale esiste lo Yeti.

E’ possibile avvistarlo fra la California settentrionale, l’Oregon, lo Stato di Washington e la parte meridionale della Columbia Britannica, in Canada.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Da tempo si parla di un essere che corrisponde in qualche modo alla descrizione dello Yeti, ma che è localmente noto col nome indigeno di Sasquatch.

Si tratta di un vocabolo degli Indiani Tlingit che vivono fra la catena Costiera e le rive dell’Oceano Pacifico.

La parola inglese corrispondente è, semplicemente, bigfoot, che potremmo tradurre come “piedone”. In quanto la creatura è nota soprattutto per le gigantesche impronte lasciate sul terreno al suo passaggio.

Di esso è stata ripresa anche una sequenza cinematografica di alcuni metri di pellicola. Pellicola che mostra una specie di enorme scimmia antropomorfa, muoventesi su due zampe in stazione eretta. nel filmato si vede l’animale correre veloce attraverso la boscaglia mentre guarda con aria sospettosa in direzione del teleobiettivo.

Il filmato è assai controverso:

filmato da un certo Roger Pattersoin il 20 ottobre 1967, in località Bluff Creek.

Verso le ore 13 (e quindi in ottime condizioni di luminosità), per alcuni non è che un falso clamoroso. Mentre per altri potrebbe testimoniare una delle più grandi scoperte antropologiche del XX secolo.

Sia come sia, il Sasquatch è ormai entrato nell’immaginario collettivo americano (e, in minor misura, europeo). Anche per merito di film, serie televisive a puntate e perfino giornalini a fumetti. Mentre esiste una sparuta ma combattiva minoranza di scienziati disposti a scommettere sulla sua reale esistenza. (2)

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Infine c’è una parte del pubblico occidentale.

In genere di estrazione più colta, che è al corrente della secolare tradizione europea. Tradizione secondo la quale la regione alpina sarebbe la dimora di un “uomo selvatico”.

Figura di cui si parla già in certi testi della letteratura medioevale:

ad esempio, nel romanzo di Chrétien de Troyes, Ivano o il cavaliere del leone. Romanzo dove, nella misteriosa e incantata foresta di Brocelandia, “in soccorso di Ivano, interviene un vero abitante di questo mondo selvaggio.

Si tratta di una creatura al limite dell’umano, nera, deforme e gigantesca. Quanto il cavaliere è bello, chiaro e ben conformato”. (3)

Ne esistono anche pitture ed affreschi, sparsi in vari luoghi d’Europa. Tra i quali Castel Rodengo (XIII secolo) e Sacco in Valgerola (1464).

La creatura silvestre

Una sintesi efficace dell’intera questione dell’uomo selvatico, dalla ‘creatura silvestre’ dei miti alpini fino allo Yeti himalaiano, è contenuta in un libro di Massimo Centini.

Il libro è apparso una quindicina d’anni fa, e arricchito da una significativa bibliografia. (4)

Quello che pochissimi o forse quasi nessuno sa, nel pur informatissimo pubblico occidentale, è che all’estremità meridionale della Nuova Zelanda esiste lo yety. Lo troviamo come dire, agli estremi confini di una terra di confine.

E vivrebbe, o forse è vissuto fino a tempi assai recenti e si tratta di un altro parente di quella stessa stranissima famiglia di ominidi o di gigantopitechi cui apparterebbero tanto lo Yeti quanto il Sasquatch.

Si tratterebbe di una creatura umanoide e selvaggia localmente nota con il nome di Maeroero. I Maori loconoscono – o meglio conoscevano molto bene, e verso la quale nutrivano un grande timore.

La presenza di questa tradizione agli antipodi del mondo euro-asiatico starebbe a dimostrare che quella nell'”uomo selvaggio” è una credenza a diffusione praticamente mondiale. che spazia dalle Alpi all’Himalaya, dal Nord America all’Oceania.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Ed addirittura lo ritroviamo nell’estrema zona meridionale di diffusione della cultura polinesiana.

Non un fatto locale, dunque, confinato a qualche regione particolarmente ‘arretrata’ (secondo la mentalità occidentale) o a qualche aspetto marginale di antiche culture religiose bensì una realtà diffusa in ogni angolo della Terra.

La credenza nello Yeti diffusa nei monasteri buddhisti nella vasta regione compresa fra Nepal e Mongolia ha viaggiato attraverso popolazioni, culture e religioni diversissime le une dalle altre.

Qualche cosa, dunque. che dovrebbe farci doppiamente riflettere e abbandonare quell’ironico sorrisetto di superiorità. Sospetto con cui, di solito, ci accostiamo alle realtà diverse dalla nostra.

Del Maeroero si parlava molto, fra i Maori dell’Isola del Sud, nel corso del secolo XIX. Era stato visto nell’estrema regione costiera sud-orientale, nell’arco compreso tra le cittadine. Cittadine fondate più tardi dai bianchi, di Invercargill e Dunedin.In una regione collinosa nota col nome di Catlins.

La vetta più elevata, il Monte Pye, non raggiunge che i 720 metri. Ma tutte le colline sono ammantate da una densa foresta ove non predomina il faggio antartico (Notofagus). Mentre sull’ opposta costa sud-occidentale, bensì il podocarpo vi è un un ricco sottobosco di felci. Ed è popolata da un numero immenso di uccelli e parrocchetti ( i pappagalli più australi del mondo).

Se la foresta è ancora in gran parte intatta (anche per merito dell’istituzione di un vasto Parco nazionale), prima dell’arrivo dei coloni di origine europea essa doveva essere veramente grandiosa. Per quanto già qua e là intaccata dai disboscamenti irrazionali attuati dagli indigeni per mezzo di incendi.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Sia a scopo di caccia (al Moa, per esempio, fino alla sua totale estinzione). Sia per tentare la coltura della patata dolce, che, però, a queste latitudini meridionali difficilmente attecchiva.

Queste antiche e buie foreste, dove a stento penetrava la luce del sole, poste ai piedi del grande sistema orografico delle Alpi Neozelandesi, pare siano state la dimora e il rifugio di una creatura spaventevole e semi-umana.

Creatura chiamata dagli indigeni col nome di Maeroero. La cui sola pronunzia era sinonimo di sbigottimento se non di autentico terrore.
Noi sappiamo che, fra XVII e XIX secolo, la regione dei Catlins, come del resto quasi tutta l’Isola del Sud della Nuova Zelanda, fu teatro di una progressiva ritirata degli insediamenti umani. Ritirata provocata da un esaurimento delle risorse.

Ed ancor più, da una grave alterazione dell’equilibrio ecologico operata dagli indigeni. Dai cosiddetti “cacciatori di moa” dapprima, indi dai sopraggiunti Maori, la cui prima tappa d’insediamento era stata la più favorevole Isola del Nord.

Scrivono D. Lewis e W. Forman:

“I moa subirono una decimazione. E verso il XVII secolo erano estinti. Parallelamente, anche la popolazione di cacciatori declinò. Privati della principale risorsa di cibo, i Maori evacuarono le aree interne dell’isola del Sud e si riportarono le coste.

La mano dell’uomo gradualmente esaurì le risorse del mare e della costa. Ed infine aveva alterato il fragile equilibrio ecologico della foresta tropicale e dei suoi abitanti incapaci di volare.

La popolazione dell’isola del Sud declinò.”

All’inizio del XIX secolo, secondo i due studiosi

“Sebbene (?) i Maori meridionali coltivassero la patata europea, che [a differenza della patata dolce polinesiana, nota nostra] resisteva al gelo, non avevano per nulla abbandonato le loro risorse tradizionali di cibo. Neanche le loro abitudini alle migrazioni stagionali.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Gli uccelli della boscaglia, le anguille, i molluschi, gli uccelli di mare e le foche erano ancora molto importanti nell’alimentazione di questo popolo. Tutto cibo a portata di mano lungo le coste o nelle zone interne in determinati periodi dell’anno.

“Questo che segue, ad esempio, era il ciclo stagionale degli abitanti dell’isola di Ruapuke.

Isola che giace nell’inospitale Stretto di Foveaux, tra l’isola Stewart e l’Isola del Sud. Dunque, vicinissima alla regione dei Catlins.

Gennaio e febbraio (l’estate del sud) venivano trascorsi a casa. Raccogliendo patate e facendo sacche ove porre le berte conservate (titi). In inglese, tali uccelli sono detti muttonbird.

Nel mese di marzo salpavano per le isole Muttonbird, al largo dell’Isola Stewart, e vi rimanevano fino a maggio. Epoca in cui ritornavano a Ruapuke con un buon bottino.

In giugno percorrevano l’Isola del Sud a caccia di volatili di bosco (weka).

In agosto si spostavano verso le foreste alla ricerca di uccelli. Nel mese di settembre risalivano il fiume Mataura fino a Tuturau per raccogliere lamprede.

Novembre li vedeva lungo le coste impegnati con le anguille. In dicembre, infine, riattraversavano lo Stretto di Foveaux e ritornavano a Ruapuke.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

“Questa parte meridionale della Nuova Zelanda e le isole Chatham, che mantennero caratteri arcaici, possono fornire ulteriori indicazioni relative alla vita in ambiente tropicale degli abitanti della Polinesia orientale.

I quali mostrarono la propria tempra di fronte alla neve e alle tempeste [le nevicate sono abbondanti. Nella stagione invernale dalla fine di marzo alla fine di settembre, sulle montagne dell’isola del Sud, ma non è infrequente nemmeno sulla costa.

Almeno nella sezione più meridionale posta tra la Fiordland  tra l’Isola Stewart ed i Cartlins.

All’inizio del XIX secolo lungo quelle coste inospitali venivano ancora costruiti e impiegati modelli d’imbarcazioni polinesiane.

Vi erano semplici canoe ricavate da tronchi, canoe a cinque parti, piroghe a due bilancieri. Esistevano canoe doppie raupo e zattere di tronchi legati con giunchi, dette mokihi.

Ogni tipo d’imbarcazione aveva un proprio impiego specifico, in un luogo determinato. Le zattere, ad esempio, venivano costruite e usate lungo i fiumi e i laghi interni.” (5)

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Si trattava, evidentemente, di un sistema di vita abbastanza complesso e delicato.

Sistema basato su continui spostamenti alla ricerca di cibo da parte di un popolo cacciatore e raccoglitore. Solo dopo l’introduzione della patata europea, capace di resistere al freddo degli inverni australi, la situazione era destinata a divenire un po’ meno precaria.

Ma poco dopo giunsero i bianchi con i loro allevamenti di pecore. Che sulle pianure ricche e piovose dell’Isola del Sud trovavano il terreno da pascolo ideale. Ed ebbe inizio l’epoca dello scontro con i nuovi invasori.

Fu in questo contesto di precarietà che i Maori stanziati dei Catlins ebbero a che fare con il Maerorero.

Nei due secoli e mezzo che vanno dalla fine del 1600 (data presumibile della estinzione dei Moa giganti) alla metà del 1800 arrivò in forze dell’uomo bianco e perdita delle terre. L’Isola Stewart o Rakiura, ad es., fu venduta nel 1864 al Governo britannico per 6.000 lire sterline.

A causa del terrore suscitato dalla presenza del mostruoso Maeroero.

Ecco in quali termini ne parlano i quattro autori del libro Nuova Zelanda. Edizione in lingua italiana delle Guide Lonely Planet di Victoria, Australia. Che è, probabilmente, il più completo e informato esistente oggi in Italia su quel paese.

“La regione [dei Catlins] era un tempo abitata dai cacciatori di moa. E tracce dei loro accampamenti sono state rinvenute nei pressi di Papatowai.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Tra il 1600 e il 1800, la popolazione maori si assottigliò. A causa della progressiva estinzione dei moa, della mancanza di coltivazioni di kumara (patata dolce). Anche a causa del timore suscitato dal Maeroero.

La creatura selvaggia simile allo yeti che viveva nel bush [foresta fitta, selva] di Tautuku. E si credeva rapisse i bambini e le giovani donne.” (6)

In realtà, storie analoghe erano raccontate dai Maori anche di altre zone, ma sempre nell’Isola del Sud.

Per essere precisi, la creatura selvaggia veniva chiamata con tre nomi differenti:

Moehau; Maerorero (nelle zone collinose e montuose); Maero (nelle regioni più interne).

La credenza era così viva e reale che , nelle storie orali tramandate dagli anziani, si parlava di tre grandi piroghe. Che avrebbero popolato la Nuova Zelanda, al tempo della grande migrazione dalla Polinesia.Si tratta di Waka-Orurea, Waka-Atua e Waka Huruhuru-Man; quest’ultima avrebbe trasportato sulle isole, appunto, il Maeroero.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

I racconti dei Maori che lo avevano visto parlavano di un “uomo dei boschi” estremamente peloso. Uomo dei boschi d’indole solitaria. Con delle lunghe dita ossute simili ad artigli che erano in grado di pugnalare la preda come dei coltelli.

Allorché se ne presentava l’occasione, egli non esitava a rapire le persone. In genere donne e bambini. E tanta era la paura diffusa da tale credenza, da spingere gli indigeni ad abbandonare tutta una serie di villaggi ed insediamenti. Specialmente – come si è visto – nelle colline boscose dei Catlins.

Gli scettici potrebbero pensare a delle storie puramente leggendarie.

Tanto più, per i Maori, il confine tra storia e mito è estremamente labile. O per dir meglio, non possiedono le categorie occidentali basate su una netta separazione tra verità scientifica e verità simbolica.

I racconti dei Maori

I Maori, infatti, mescolano naturalismo e simbolismo all’interno dei loro racconti. Che si fa fatica a definire “storici” nel senso che diamo noi a questo termine. Figli della tradizione di Erodoto, Tucidide, Senofonte, Tito Livio e Tacito.

Senonché, le cose si complicano alquanto per il fatto che anche degli uomini bianchi, e a più riprese, hanno visto o hanno riferito di aver visto l'”uomo selvaggio” nei boschi misteriosi dell’isola del Sud. E molto più raramente, anche in quella del Nord.

Un ulteriore problema è dato poi dal fatto che i racconti dei testimoni europei non collimano con quanto riferito dalle antiche (ma neanche tanto) storie dei Maori.

Per esempio, secondo questi ultimi il Maeroero è aggressivo e minaccioso e non esita a rapire degli esseri umani. Per i bianchi, si tratta di una creatura che si tiene a debita distanza dall’uomo, facendosi vedere il meno possibile.

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Si ha notizia di un solo caso di incontro violento con il Maeroero. Ed esso risalirebbe agli anni intorno al 1850. L’incontro ebbe luogo nella regione sud-occidentale della Fiordland. Che i Maori (forse a causa delle alte montagne e delle fittissime foreste) chiamano Terra dell’Ombra. (7)

In quel caso, un uomo bianco sarebbe stato attaccato da una delle misteriose creature.

Ma questa è un po’ l’eccezione che conferma la regola. Inoltre circolavano racconti circa una creatura “dai capelli rossi” che viveva in una caverna del Monte Moehau. Che venne chiamata l’uomo di Coromandel.

Si sono avanzate molte spiegazioni per tentar di chiarire il fenomeno.

Ad esempio, si è parlato di un gorilla che sarebbe fuggito da una nave e che si sarebbe internato nei boschi presso la costa di Wai Aro, intorno al 1920.

Certo, la cosa è possibile. Ma potrebbe spiegare solo una piccola parte degli avvistamenti e in una zona abbastanza ristretta. Mentre, come si è visto, essi provengono un po’ da tutta l’Isola del Sud. E qualche volta, anche da quella del Nord.

Inoltre, lo ripetiamo, le descrizioni dei testimoni di origine europea non collimano con quelle tramandate dai Maori. E se possiamo ammettere che i primi siano stati influenzati dal folklore dei secondi, questi ultimi da chi avrebbero sentito parlare del Maeroero?

Se non da uomini della loro stessa razza che, in un modo o nell’altro, lo avrebbero incontrato o almeno avrebbero creduto di vederlo?

Il Maeroero della Nuova Zelanda: uno yeti?

Una cosa è certa.

L’estremità meridionale della Nuova Zelanda è uno dei pochi luoghi al mondo che potrebbero celare un animale, anche di grandi dimensioni, ancora del tutto sconosciuti alla scienza. Con le sue foreste impenetrabili e le sue montagne dirupate, donde precipitano alcune delle cascate più alte del mondo (come le Sutherland Falls) è l’habitat ideale per una creatura di questo tipo.

Non per nulla proprio qui, nel 1948, è stato ritrovato il grosso e meraviglioso uccello chiamato takahe.

Il cinome scientifico: Notornis mantelli), che si credeva estinto da tempo.

E non per nulla proprio qui, fra il 1780 e il 1840, si è consumato il mistero della “Tribù Perduta” dei Ngatimamoa. Che l’inospitale Fiordland sembra avere inghiottito senza lasciarne alcuna traccia. (10)

Misteri, ancora misteri.

Li abbiamo lasciati alle pendici dell’Himalaya.

Li ritroviamo a ovest delle Montagne Rocciose e nell’estremità più australe della Nuova Zelanda.

Là dove non è impossibile vedere il fenomeno delle aurore polari antartiche.(8)

Parafrasando una celebre affermazione dello scrittore francese René Théveénin, potremmo dire che essi vivranno tanto quanto l’uomo, poiché è nel cuore umano che vivono. (9)

La memoria storica

Oppure potremmo dire che essi vivono nella memoria storica.

E che ancora l’uomo li incontra sul proprio cammino per il semplice fatto che essi non sono una realtà simbolica, ma concreta. Sia pure con diverse sfumature, sono questi i due atteggiamenti fondamentali che possiamo avere di fronte al mistero.

Un po’ come di fronte al mito:

quello idealista, platonico, secondo il quale il mistero. Che ci rimanda a una realtà di ordine superiore tutt’altro che immaginaria. Anzi al vero fondamento della realtà basata sul “senso comune”. E quello materialista, evemerista .

(Da Evemero, l’erudito greco che affermò essere gli dei frutto della rielaborazione leggendaria delle gesta dei grandi uomini del passato). Per la quale il mistero non è che volo dell’umana fantasia.
A ciascuno prendere la sua decisione, fare una scelta.

Note

1) L’esposizione più completa, in lingua italiana, della “questione” relativa allo Yeti è l’ornai classico libro di Carlo Graffigna Yeti, un mito intramontabile, Torino, Centro Documentazione Alpina, 1999. In lingua inglese la bibliografia è assai vasta, citiamo fra tutti TAYLOR-IDE, Daniel, Sulle orme dello Yeti, Casale Monferrato, Piemme, 2000.

2) Il testo-base per approfondire l’enigma dell’uomo-scimmia nordamericano è CANTAGALLI, Renzo, Sasquatch, enigma antropologico, Milano, Sugarco, 1975. Si veda anche l’ottimo libro, di carattere generale, di BARLOY, Jean-Jacques, Roma, Lucarini Editore, 1987, che dedica un capitolo anche allo studio del Sasquatch.

3) AGRATI, Gabriella-MAGINI, Maria Letizia, Introduzione a CHRÉTIEN DE TROYES, Ivano, Milano, Mondadori, 1988, p. XI.

4) CENTINI, Massimo, L’uomo selvatico, Milano, Mondadori, 1992.

5) LEWIS, David- FORMAN, Werner, I Maori, un popolo di guerrieri, Novara, istituto Geografico De Agostini, 1983, pp.26-28.

6) TURNER, Peter-WILLIAMS, Jeff- KELLER, Nancy- WHEELER, Tony, Nuova Zelanda, Torino, E. D. T., 1999, pp. 730-731.

7) TRIFONI, Jasmina, La Terra dell’Ombra, in Meridiani: Nuova Zelanda, n. 153, nov. 2006, pp. 108-119.

Note

8) Infatti il nome maori dell’isola Stewart, Rakiura, significa letteralmente: “la terra dai cieli ardenti”.

9) Cfr. THÉVÉNIN, René, I paesi leggendari, Milano, Grazanti, 1950, p. 111.

10) FORBIS, John, La terra che resiste alla sfida dell’uomo, in Selezione dal Reader’s Digest, sett. 1972, pp. 147-152; STINGL, Miloslav, L’ultimo paradiso. Misteri e incanti della Polinesia, Milano, Mursia, 1986, pp. 225-228.

Articolo scritto da Francesco Lamendola

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Approfondimenti:

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Medusa creatura mitologica greca

Medusa creatura mitologica greca

Medusa è una creatura mitologica greca ed è la sorella sovrana,  una delle figlie di Forco (divinità del mare ) e di Ceto ( divinità dell’oceano) nella mitologia greca. E’ l’unica delle tre figlie ad essere mortale. Le altre sorelle di Medusa sono Steno ed Euriale, tre belle ragazze o tre orribili mostri a seconda delle leggende. Le tre sorelle sono note come Le Gorgoni. Secondo la leggenda Poseidone il Dio del mare e dei terremoti, si innamorò di Medusa e la portò con sé nel tempio di Atena. La Dea però si vendicò dell’affronto subito trasformando i capelli della ragazza in serpenti. Inoltre per via della maledizione gli occhi di Medusa avrebbero trasformato in pietra chiunque li avesse guardati.
Un illustrazione di Medusa Foto di syaifulptak57 da Pixabay
La leggenda narra che  Medusa fu uccisa da Perseo, che protesse il suo sguardo con uno scudo su cui si rifletteva la figura di Medusa. Perseo si avvicinò alle tre sorelle addormentate decapitandola con un colpo di falce. Infine dalla testa decapitata di Medusa nacque il mitologico cavallo alato Pegaso e Crisaore. Pegaso secondo la leggenda potrebbe essere nato dal sangue di Medusa oppure essere fuoriuscito direttamente dal collo reciso di Medusa. La Dea Atena utilizzò la testa di Medusa al centro del proprio scudo per pietrificare i suoi nemici in guerra in quanto la testa pietrificava manteneva comunque il suo potere di pietrificare chiunque la guardasse. Un bassorilievo conservato è visionabile al museo archeologico di Palermo, con una rappresentazione di un momento in cui Perseo decapita Medusa.

Le sorelle di Medusa creatura mitologica greca

Euriale è nota come la sorella errante di Medusa ed è immortale come sua sorella Steno ma aveva zanne di cinghiale al posto dei denti, ali d’oro e mani di bronzo. Nella Mitologia greca era l’unica dotata di sentimenti umani ed era spesso soggetta a pianti strazianti al ricordo della morte della sorella Medusa ed era affetta da una forma di perversione sessuale.

La sorella violenta Steno.

Steno è la sorella più violenta e fisicamente aveva le stesse caratteristiche di Euriale. Steno è descritta come una figura aggressiva e assassina.

Approfondimenti:

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Pegaso Ippogrifo Grifone Unicorno nella mitologia

Pegaso Ippogrifo Grifone Unicorno nella mitologia

Grecia.

Il cavallo alato Pegaso è una figura che, secondo la mitologia greca, ha preso atto a numerosi combattimenti. Questa è una figura identificata come bonaria è figlio di Medusa. Pegaso è nato dal sangue della decapitazione di Medusa, avvenuta per mano di Perseo. Oppure secondo la leggenda potrebbe essere fuoriuscito direttamente dal collo decapitato di Medusa. Il cavallo alato Pegaso divenne di proprietà di  Perseo con cui salvò Andromeda da un mostro marino a cui era stata offerta come vittima sacrificale.

Pegaso in seguito fu catturato da Bellerofonte e lo aiutò a sconfiggere Chimera . Bellerofonte tentò di raggiungere gli Dei e fu punito da Zeus in persona che inviò un insetto che punse il cavallo alato che si imbizzarrì. In questo modo Pegaso fece precipitare nel vuoto Bellerofonte, a quel punto Pegaso è volato in cielo trasformandosi in una costellazione.

Pegaso Ippogrifo Grifone Unicorno nella mitologia

Il cavallo alato Pegaso lo troviamo raffigurato nelle tavolette della valle dell’Eufrate. Il fiume Ippocrate secondo la mitologia è nato da un colpo inferto al terreno da uno zoccolo di Pegaso. In epoca corinzia ritroviamo l’animale mitologico raffigurato sempre su monete. Nel periodo degli etruschi ritroviamo la figura di Pegaso impressa monete chiamate “Pegasi”. Pegaso è una figura mitologica che è possibile ritrovare in un numerosi manufatti.

In Italia una moneta del metà del 500 è attribuita a Benvenuto Cellini e si trova al museo Museo Nazionale del Bargello di Firenze e contiene un illustrazione di Pegaso.

In Toscana invece Pegaso è il simbolo della regione. Il cavallo alato ha fatto la sua prima comparsa nello stemma toscano a partire dal 1975.

Pegaso, Ippogrifo, Grifone, Unicorno nella mitologia

L’Ippogrifo

Nella mitologia greco-romana vi è la figura dell’Ippogrifo ovvero un cavallo alato con testa ed ali da aquila. Il petto e le zampe anteriori dell’Ippogrifo sono dotate di artigli da leone similmente al Grifone.

 Grifone

Il Grifone è una figura sempre della mitologia greca, il suo corpo è di leone e la testa è d’aquila. Il Grifone è dotato di orecchie da cavallo e coda da serpente.

Unicorni

Illustrazione di un Unicorno. Foto di rentheadnn da Pixabay

Gli Unicorni fanno parte del piccolo popolo. L’unicorno è una creatura dotata di poteri magici, con un corno a spirale detto “Alicorno” che è a punta in mezzo alla fronte. E’ lungo circa 50 cm ed è anche definito come il cavallo degli elfi.

Gli Unicorni sono chiamati anche Liocorni. Generalmente il loro manto è di colore bianco e il colore degli occhi è blu o azzurro. Il termine Unicorno deriva dal termine latino unicornis ovvero: Un unico corno. La leggenda degli Unicorni risale all’antica Grecia in cui era presente Pegaso, cavallo alato. 

All’ Unicorno sono attribuiti poteri magici e misteriosi, purezza e saggezza.  Si narra che per catturarlo sia necessaria una donna vergine come esca. Se il corno è sottratto all’Unicorno la creatura perde la vita. Negli antichi arazzi l’unicorno è simbolo di nobiltà.

La vendita dei corni

Per secoli sono stati venduti corni di rinoceronte o narvalo spacciandoli per corni di Unicorni. Poteri magici erano attribuiti al corno di questa mistica creatura. Per questo motivo i corni, spacciati di Unicorno, venivano venduti ad alto prezzo con la falsa promessa di ottenere, insieme al corno acquistato, il potere di guarigione e anti velenifero.

Il Narvalo

Groenlandia.

Il Narvalo non è una creatura mitologica ma si tratta di un mammifero marino antico che si trova nelle acque dell’Artico.

Illustrazione di un Narvalo. Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Questo animale è dotato di un corno che può raggiungere i tre metri di lunghezza. Il corno del narvalo svolge una funzione di “sensore”. La funzione del corno del Narvalo è quella di identificare le acque con salinità adatta al suo corpo e per identificare i pesci di cui si nutre. Il corno di Narvalo è stato venduto nei secoli passati anche come scettro ed era lavorato con numerose pietre preziose e venduto a prezzi elevati. Spesso il corno di Narvalo veniva spacciato per il corno di un Unicorno o Liocorno. Il Narvalo è noto come l’Unicorno dell’Artico e “liocorno del mare”.

Narvalo è raffigurato anche con una criniera nei dipinti del passato.

Approfondimenti: 

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I Kappas creature mitologiche giapponesi

I Kappas creature mitologiche giapponesi

Una statuetta di un Kappa.

Giappone.

I Kappas, creature mitologiche della cultura giapponese segnalati dal IX all’XI secolo d.C al tempo di Heian. 

I Kappas sono descritti come esseri umanoidi in grado di sopravvivere negli stagni o nei fiumi giapponesi, dotati di scaglie sul corpo con colore che varia dal blu al verde. Gli arti sono palmati per nuotare e sono dotati di tre artigli di cui uno più lungo degli altri. I Kappas sono chiamati anche “uomini dei canneti“, con grosse orecchie e occhi triangolari e una curiosa proboscide che termina dietro la schiena.

La caratteristica di questi esseri è la presenza di una cavita’ sul capo ricoperta di radi peli simili a capelli umani. In questa cavità si depositerebbe del liquido fondamentale per la sopravvivenza dell’essere.

Il kappa secondo la mitologia giapponese sarebbe una creatura dotata di uno spiccato senso della Netiquette.

Di sua spontanea volontà può privarsi del liquido depositato in queste cavita’ chiamate okappa atama indebolendosi notevolmente fino ad arrivare alla morte. Mentre altre credenze narrano che questo liquido permetta ai Kappa di sopravivvere fuori dall’acqua fino al suo esaurimento.

Queste creature sarebbero in grado di fiutare l’odore delle creature che abitano i fiumi o gli stagni, come i pesci, e sarebbero in grado di nuotare esattamente come i pesci.

I Kappas creature mitologiche giapponesi

In Giappone si narra che i Kappas siano esseri malvagi, dispettosi e si nutrano di esseri umani.

Secondo la leggenda i Kappas si nutrono specialmente di bambini, nutrendosi delle loro interiora asportandole attraverso l’ano ma non disdegnano nemmeno gli adulti.

Si narra che i Kappas siano impauriti dal fuoco ma che siano incuriostiti dalle usanze del popolo Giapponese e che sappiano parlare e capire il giapponese e che siano abili lottatori di sumo wrestling e di Shogi, un noto gioco a scacchi giapponese.

Si narra che creino legami con gli esseri umani, legami indissolubili secondo la tradizione dei Kappas e si narra che siano esperti in medicina.

Le donne gettano nei fiumi o stagni infestati da queste creature cetrioli di cui queste creature sono ghiotte. E su questi cetrioli scrivono il nome dei loro figli per proteggerli dagli attacchi dei Kappas, usano perfino riempire un cetriolo di Sushi, un alimento creato apposta per i Kappas.

Teorie sui Kappas

I kappas sono alieni o esseri provenienti da altre dimensioni parallele? Come il noto Chupacabras?

In Giappone una pratica era quella di gettare i feti nei fiumi e i Kappas potrebbero essere derivati da questa pratica. Potrebbero essere animali anfibi che si sono evoluti nutrendosi del liquido creatosi nel fiume in seguito all’immersione dei feti.

E’ una creatura inventata per coprire altre attività illegali giapponesi?

In Giappone i Kappas fanno parte della cerchia dei giocattoli per bambini. Li troviamo nei videogames e nei giochi di ruolo come nemici cattivi, sono stati creati anche cartoni animati con protagonisti i Kappas.

Curiosità:

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Fonte dell’immagine di copertina: Pixabay

 

 

La bestia del Gévaudan in Francia

La bestia del Gévaudan in Francia

Rappresentazione de la bestia del Gévaudan in Francia, tratta dal web.

Francia

Nel periodo che va dall’anno 1764 al 1767 nella regione Gévaudan in Francia una strana creatura fa strage di uomini, donne e bambini nei boschi circostanti la zona.

Nel giugno 1764, una giovane donna è attaccata da un animale strano in un villaggio nei pressi di Langogne (Ardèche) mentre pascolava le sue mucche.

Al primo assalto della bestia, i cani che la donna aveva con sè fuggirono.

Le mucche tennero a bada il mostro attacandolo impedendo che la giovane donna fosse divorata. Respinta, la bestia ritornava immediatamente alla carica.

Cercando di attaccare la giovane donna l’animale finì con lo scoraggiarsi davanti agli attacchi da parte dei bovini e la donna si salvò sfregiata solo da alcuni graffi dovuti agli artigli della creatura.

Ecco come la donna descrisse la bestia:

“Grande come un vitello con un petto molto largo, testa e collo molto grosso, orecchie corte e dritte. Il muso come quello di un levriero, la bocca nera e due denti molto lunghi ed affilati. Con un manto nero della cima della testa all’estremità della coda, procede a balzi di oltre 9 metri, dotata di grandi ed affilati artigli.”

Nei mesi che seguono, l’orrore continua: numerosi bambini e donne furono divorati dalla bestia.

Tra 16 settembre e il 27 dicembre 1764 oltre 15 persone tra bambini e donne furono uccisi dalla creatura.

Si trovavano degli arti, teste mozzate o cadaveri mezzi divorati.

Gli attacchi della creatura erano rivolti principalmente alle donne ed ai bambini.

In quanto erano prede molto più facili perchè opponevano poca resistenza e perchè erano loro che pascolavano il bestiame all’infuori dei villaggi, sulle colline.

La bestia del Gévaudan in Francia

Le caratteristiche mostruose di questo animale che probabilmente si imparentava al lupo senza esserne però un lupo.

Ed i suoi massacri incessanti ne hanno fatto molto velocemente una bestia straordinaria, diabolica ed invulnerabile, forse dotata di poteri paranormaliQueste descrizioni alimentavano la leggenda sulla creatura.

Nelle case si comincia ha parlare della bestia ed il terrore si sparse velocemente nell’est del Gévaudan.

La caccia

All’epoca solo i nobili facevano parte della ristretta cerchia di chi possedeva armi da fuoco e che potevano andare a caccia. Molte volte la bestia incrociava la sua strada con i cacciatori ma i loro colpi di fucile sembravavano non scalfirla..

L’ 8 ottobre 1764, due cacciatori avvistarono la bestia e le sparano da una distanza di circa dieci passi.

La bestia cadde in seguito al colpo ricevuto ma si rialzò immediatamente, altri colpi furono sparati dai cacciatori ma la bestia cominciò a correre, poco stabile, verso il bosco sfuggendo ai suoi cacciatori.

I cacciatori credettettero di ritrovarla morta il giorno seguente in seguito ai colpi ricevuti ma al contrario essa uccise ancora nei giorni a seguire

.Da qui naque la leggenda che la bestia fosse in grado di comandare in qualche modo le armi da fuoco dotata forse di poteri paranormali.

Il capitano Duhamel

Nel novembre 1764,il capitano Duhamel e i suoi 40 uomini a piedi e 17 a cavallo presero in mano la situazione.

Duhamel organizzò delle enormi battute di caccia con centinaia di contadini al suo seguito ma senza successo.

Tutti i tentativi furono inutili. La bestia era troppo veloce e troppo intelligente per cadere in trappola. Gli uomini di Duhamel credettero che non l’avrebbero mai abbattuta e così fu.

Anche se la incontrarono e la bestia per nulla intimorita fu vista in modo chiaro da Duhamel che la descrisse come “una creatura ibrida, non un lupo” ma non fu uccisa.

I contadini si ritrovarono stanchi degli uomini di Duhamel che che si nutrivano del loro cibo, alloggiavano nelle loro case e non riuscivano ad abbattere la bestia che continuava imperterrita nei suoi massacri.

La storia della famiglia Denis

La famiglia Denis(composta da padre, madre, due ragazze, Jiulienne e Jeanne, di una ventina d’anni ed i due figli maschi , Silvain dieci anni e Jacque, sedici anni) sarà dolorosamente legata alla storia della bestia.

E la famiglia si troverà molte volte alle prese con la creatura assassina.

I Denis non erano né poveri né ricchi, possedevano alcune mucche, pecore e capre che i ragazzi avevano l’incarico di condurre al pascolo. Abitavano a Santo-Privare-Fau, ai piedi dei monti Margeride, a 1200 m di altitudine, poco lontani dal centro del villaggio.

Nell’autunno 1764, subirono i primi danni da parte della bestia.

Mentre centinaia di battute di “caccia alla bestia” furono organizzate dai contadini e la bestia, braccata, una notte attraversò i monti del Margeride avvicinandosi alla famiglia Denis ricominciado la sua carneficina.

I Denis spaventati si barricano in casa. Nessuno di loro osava più condurre il bestiame ai pascoli né attraversare i boschi da solo.

Nel marzo 1764 Jacques Denis vigilava sulle mucche, le capre ed i montoni vicino a Malzieu in compagnia delle sue due sorelle Jeanne e Julienne.

Jacque accese un fuoco al riparo di una roccia su di uno strapiombo.

All’ improvviso Jeanne urlò.

La bestia era su di lei e le ghermiva la testa. Jeanne si dibatteva e lottava nell’erba in un corpo a corpo con la bestia. Jacque si precipitò in suo aiuto e fece lasciare la presa alla bestia spingendola nel fuoco, mantenendola su di esso.

La bestia urlando fuggi. Jeanne aveva due ferite sanguinanti dietro le orecchie ed uno strappo alla spalla.

Jeanne ed il terrore

Jiulien che si era allontanatoper fronteggiare la bestia tornò in suo soccorso. I due ragazzi portarono Jeanne a casa, ella impazzita dal terrore non recuperò mai più la ragione.

E rimase traumatizzata al punto che improvvisi attacchi di terrore la facevano urlare come se la bestia la mordesse in varie parti del corpo.  Julien non si perdonò mai di aver lasciato la sua giovane sorella da sola.

La bestia, un mito.

La bestia del Gévaudan in Francia

Il mito della bestia non si limita soltanto per tutta la Francia ma anche in Inghilterra,Germaia e Spagna.

La descrizione della bestia:

  • Dimensioni notevoli, molto maggiori di quelle di un lupo. Descritta come un incrocio tra una tigre ed un lupo, un animale ibrido?
  • Artigli lunghi ed affilati in grado di decapitare un uomo.
  • Lunga coda e pelo folto e rossiccio o striato.
  • Il suo verso simile al nitrito di un cavallo spaventato.
  • Possenti zampe posteriori.
  • La bestia non attaccava come un lupo ma decapitava le sue vittime dopo aver bevuto loro il sangue e riusciva a mozzare gambe e braccia.

Re Luigi XV

In Francia la bestia di Gévaudan diventa leggenda, un mito. Ed il Luigi XV iniziò ad interessarsi al caso ed emana un editto il 27 gennaio 1765 dove mette una “taglia” di 6000 livres per chi ucciderà il mostro.

Il re incaricò Denneval, cacciatore famoso per aver ucciso oltre 1200 lupi in Gevaudan nel febbraio 1765,di andare sul posto con 6 assistenti, i suoi migliori cani da caccia ed i suoi figli.

Jacque Denis, sconvolto per la sua recente diavventura, si allea a Denneval,che lo accoglie in amicizia.

La caccia alla bestia

Denneval cambiò metodo di caccia, al contrario di quello adottato da Duhame, che con grandi battute di caccia rendeva la bestia ancora più diffidente.

Con il suo nuovo metodo Denneval aspettava che la bestia si facesse viva in modo tale che la bestia potesse essere avvistata facilmente, poi accerchiata ed in fine inseguita dai cani.

Questo stratagemma però non ebbe più successo di quello di Duhamel, infatti la bestia conosceva molto bene la regione e non si faceva catturare.

La bestia confondeva le tracce, entrava in un bosco, si nascondeva in un burrone, attraversava ruscelli, riappariva all’improvviso.

Si rannicchiava in cespugli di ginestre, facendosi inseguire per giorni da uomini e cani in una folle corsa su terreni inpraticabili. Mentre gli uomini stremati al tramonto cercavano alloggio presso le case la bestia aveva ancora l’energia di percorrere qualche chilometro.

Mentre lungo il suo cammino uccideva e mutilava bambini, lasciando una scia di corpi malridotti e arti sparsi ovunque.

La nuova speranza che i contadini avevano nell’inviato del re si spense pian piano mentre la paura nelle case cresceva.

Il 1° gennaio 1765, un grosso lupo sui monti del Margéride, tra l’Haute-Loire e la Lozère, viene abbattuto, la bestia è morta?

No.

Il 12 gennaio 1765 la bestia attacca un gruppo di bambini in un bosco uccidendone alcuni ma si allontana in seguito ai colpi di bastoni dei bambini.

Il signor De la Chaumette

Nel frattempo un nobile dei dintorni, il signor De la Chaumette avvista la bestia il 29 aprile 1765 tra Rimeize e San Chely.

La bestia stava osservando un pastore non lontano dalla casa di De la Chaumette, che la vede e chiama i suoi due fratelli.

Tutti e tre armati escono di casa e si vanno a nascondere sopra il pascolo.Uno dei tre uomini entra nel pascolo e spinge la bestia verso i due fratelli, la bestia indietreggia.

I due fratelli in alto le sparano, la bestia cade a terra e ruota su se stessa due o tre volte.

Il signor De la Chaumette le spara ancora, la bestia si rialza bruscamente, rotola contro un albero e non più alla vista dai suoi assalitori scappa.
Delle enormi macchie di sangue si trovavano sul terreno e nei dintorni del bosco, come se un cavallo fosse stato sgozzato!
La bestia era stata ferita al collo.

Gli uomini credettero che fosse morta.Il giorno dopo la bestia riappare ed uccide una donna cinquant’enne nei pressi dell’abitazione di De la Chaumette.

Una vendetta della bestia?O una conicidenza?

Luigi XV sostituisce Denneval con Antoine de Beauterne, altro esperto cacciatore.

Il 18 luglio 1765, de Beauterne, con al suo seguito oltre 40 tra i più abili tiratori, incontra la bestia che viene colpita da una raffica di proiettili al corpo ed alla testa che la uccidono.

L’animale è un lupo di notevoli dimensioni con folto pelo e striature sul dorso. Il peso dell’animale è di circa 60 kg contro i 22/23 kg di un lupo normale. L’animale viene imbalsamato e trasportato a Parigi.

De Beauterne viene festeggiato per aver liberato la Francia da un flagello, la bestia del Gévaudan.

La bestia sui monti di Margeride

Lunedì 2 dicembre 1765 sempre sui monti di Margeride, la bestia ricompare attaccando ancora. Il lupo ucciso ed imbalsamato non è quindi la bestia del Gévaudan.

Tra la primavera e l’inizio estate del 1766, la bestia continua ad attaccare ed uccide circa 12 persone.

Il 18 giugno 1766 un uomo anziano della zona di Darmes, Besseyres-Saint-Mary, chiamato Jean Chastel, decide di organizzare una battuta di caccia ed incontra la bestia uccidendola, è un grosso lupo del peso di circa 45 kg.

A differenza di de Beauterne, Jean Chastel porta l’ animale a Parigi senza imbalsamarlo ed esso arriva in loco in stato di putrefazione avanzato ed il contadino diventa oggetto di scherno per i parigini, ma il re lo ricompensa con 72 livres.

La fine delle aggressioni.

A partite dall‘inverno del 1766 le aggressioni diminuiscono rapidamente fino a scomparire del tutto.

Anche gli avvistamenti di strani animali non sono più segnalati.In tre anni oltre 100 persone sono state uccise dalla bestia di Gévaudan.

Taluni sostengono che le vittime siano oltre 170, la maggior parte bambini e donne.

Conclusioni ed ipotesi.

  • Cos’era la bestia?
  • Le teorie più plausibili:
  • Un felino, ad esempio una tigre, una pantera od un leone sfuggito ad uno zoo o ad un circo?Un lupo di notevoli dimensioni?Una grossa lince?Un ghiottone fuori dal suo ambiente naturale?Un licaone?
  • Un animale ibrido? E’ la teoria più accreditata.
  • Una coppia di tigri del Caucaso, tigri preistoriche estinte ma che corrispondo alla descrizioni della bestia sia come dimensioni, fauci e per il colore del lungo manto striato.

Teorie più “fantasiose”

  • Un serial killer si nascondeva dietro alla bestia?
  • Un umanoide dotato di pelliccia, con denti acuminati e abitante delle grotte del Gévaudan poteva essere la bestia?
  • Un essere alieno finito sulla terra?
  • Un essere umano cresciuto dai lupi?Con istinti omicidi?
  • Una copertura per una strage di stato ordinata dal re Luigi XV?

La bestia del Gévaudan nei film:

Il patto dei lupi

Titolo originale: Le pacte des loups
Nazione: Francia
Anno: 2001

Trama:
Francia XVIII secolo. In una regione isolata a sud della Francia un’orribile bestia chiamata “la bestia del Gevaudan” ha portato terrore massacrando selvaggiamente più di cento abitanti specialmente donne e bambini.

Re Luigi XV decide di inviare sul posto il cavaliere de Fronsac e il suo amico Mani per investigare sugli omicidi e quindi eliminare la bestia.

Curiosità:

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