Okiku la bambola maledetta a cui crescono i capelli

Okiku la bambola maledetta a cui crescono i capelli

Bambola Okiko

In Giappone le bambole sono chiamate Ningyo ovvero Nin che significa persona e Gyo forma, a forma di persona.

Le bambole giapponesi sono collegate alla credenza che le bambole siano dotate di anima propria. Si dice che siano in grado di proteggere i bambini. Vi è anche una festa onore delle bambole il 3 marzo di ogni anno ed è chiamata Hina Matsuri “Festa delle bambole”o “Festa delle bambine”

Bambola giapponese, foto illustrativa. Foto di 11342830 da Pixabay

Nel 1918 alla bambina di due anni Okiku fu regalata una bambola dal fratello diciassettenne Eikichi Suzuki acquistata in un negozio di oggettistica da regalo.

Okiku si affezionò molto alla bambola dagli occhi neri come la pece dandole il suo nome,la bambola indossava un kimono rosso e bianco e la bimba ci giocava molto.

Okiku la bambola maledetta a cui crescono i capelli

Nel gennaio del 1919 la bambina morì a causa di una polmonite e fu cremat.

Al funerale di Okiku la famiglia pensò di mettere la bambola nella bara, si narra che la stessa bambina espresse quel desiderio per poter giocare con la sua bambola nell’aldilà.

Ma si dimenticarono di provvedere a questo gesto e posizionarono la bambola sulla bara su di un piccolo altare vicino alla foto della bimba in memoria di Okiku.

In Giappone questo tipo di altare li ritroviamo nelle loro abitazioni.

La bambola Okiku, alta 40 centimetri iniziò a subire uno strano cambiamento:

i suoi capelli neri crescevano a vista d’occhio e la famiglia con stupore li tagliò per vederli ricrescere in seguito.

Furono effettuate analisi del DNA non confermate sui capelli di Okiko che sembra appartengano effettivamente ad un essere umano.

Secondo la famiglia l’anima della loro bambina vive nella bambola e se ne presero cura fino al 1938 quando fu donata ad un tempio.

Il tempio di Mannenji nella città di Iwamizawa si trova ad Hokkaido. Un sacerdote posizionò Okiku in una teca, dove è possibile visionare ancora oggi la bambola. Il sacerdote si prende cura di Okiku e dei suoi capelli. I capelli della bambola crescono fino a 25 centimetri ma lui li taglia regolarmente.

Curiosità

Di seguito un video della “Festa delle bambole” o “Festa delle bambine” Hina Matsuri. La festa si svolge in Giappone il 3 marzo.

 

Leggi gli articoli sulle altre bambole possedute su chupacabramania:

Bambole ed oggetti posseduti.

Teschi di cristallo le rivelazioni

Teschi di cristallo le rivelazioni

Una leggenda americana vuole che esistano 13 teschi di cristallo.

Si narra che questi teschi racchiudano al loro interno informazioni sulle origini e il destino della razza umana. Inoltre un giorno riveleranno il loro sapere.

Il mistero dei teschi di cristallo è nato attorno alla metà dell’ottocento, nel momento in cui iniziarono a comparire questi oggetti.

I loro scopritori li dichiarano reperti archeologici e ne  attribuirono un’origine precolombiana.

Infatti resoconti dettagliati sulle modalità dei loro ritrovamenti non esistono.

Il teschio “Mitchell-Hedges” è Il più famoso e meglio realizzato:

Nella storia fornita da Frederick Albert Mitchell-Hedges e della diciassettenne figlia adottiva Anna nel 1927 il manufatto è stato rinvenuto durante una spedizione a Lubaantun che si trova nell’Honduras Britannico.

Fu proprio quest’ultima a trovare il teschio mentre scavava tra le rovine della città. Sempre lei tre mesi dopo a qualche metro di distanza dal punto in cui giaceva il teschio trovò la mandibola.

Qualcuno dubita che la giovane Anna abbia preso parte ad una spedizione simile infatti la veridicità della storia è spesso messa in dubbio.

Altri teschi noti sono quello conservato al British Museum dal 1897.

Uno è quello dello Smithsonian Institution donatogli nel 1992 e vi è quello del Musée du quai Branly a Parigi. Il resto dei teschi è in possesso di collezionisti privati.

Teschi di cristallo le rivelazioni:

analisi in laboratorio

Nel 1970 sul teschio Mitchell-Hedges nei laboratori della Hewlett-Packard (attuale HP), i migliori nella ricerca sui cristalli.

Emerse solo che il teschio era stato ricavato da un unico blocco di quarzo e la datazione del blocco fu impossibile.

Il British Museum e la Smithsonian Institution nel 1996  analizzarono i teschi. Dal laboratorio del British Museum emersero elementi sufficienti per dedurne l’origine.

In Messico improbabile vi sia una fonte rocciosa abbastanza grande da poter produrre un cristallo del genere.

Molto probabilmente il luogo d’origine del materiale è il Brasile.

Anche la levigatezza presenta delle anomalie, nei manufatti aztechi si presenta più dolce. La superficie dei teschi è ruvida come quando si utilizzano le moderne apparecchiature di levigazione.

Le prove più schiaccianti sull’origine di tali manufatti è venuta fuori analizzando la loro superficie con un microscopio ad elettroni. E’ stato preso anche un calco in resina.

Ciò che è emerso da questa ultima analisi sono stati degli impercettibili sengi di graffi rotatori frutto di strumenti di modellazione a ruota. Si tratta però di strumenti inesistenti nell’America pre-colombiana ogni teschio analizzato dava il medesimo risultato.

I manufatti probabilmente furono realizzati in Germania e nell’antiquario francese Eugène Boban è stato trovato l’artefice del traffico di questi falsi.

Conclusioni

Attualmente pare più che ovvia l’origine di tali teschi che a prescindere da essa resteranno sempre delle stupende e suggestive opere d’arte.

Gli appartenenti alle correnti New Age rifiutano comunque di credere ai risultati scientifici.

Questo tipo di corrente resta dell’idea che i teschi siano originali e dotati di facoltà in grado di liberare il potenziale nascosto della nostra mente.

Articolo scritto da:

Fabio Di Stasio

Approfondimenti:

Visita nel sito la sezione de i luoghi misteriosi e le scoperte più strane nel mondo

Un esempio è la foresta incantata in Russia, Naica, la grotta di cristallo ed il mantello che rende invisibile…

Il ponte dove si suicidano i cani

Il ponte dove si suicidano i cani

 

Il ponte dove si suicidano i cani, il pont

A Overtoun in Scozia vi è un ponte costruito nel 1892 chiamato Overtoun Bridge creato per ampliare i collegamenti della villa che si trova nei paraggi. il ponte è stato spesso nominato per numerosi strani suicidi canini.

Il ponte, una notevole costruzione, ha visto decine di cani di diverse razze e dimensioni superare il parapetto e gettarsi nel vuoto.

In questo modo i cani hanno trovato la morte nelle acque fiume Clyde sottostante.

Le teorie

Suicidi definiti bizzarri ed inquietanti dagli abitanti di Overtoun. A questi eventi bizzarri hanno  cercato di dare una risposta non solo una persona ma anche uno special televisivo. 

Il Dott. David Sands attribuisce la colpa di questi suicidi canini, se così si possono definire, alla presenza di una colonia di visoni che abita sotto questo imponente ponte. L’odore dei visoni, specialmente nel periodo degli accoppiamenti, attirerebbe inesorabilmente i cani verso il basso, verso l’inevitabile morte.

Video su youtube sullo studio del dott.David Sands.

Un’ altro filmato è stato effettuato per il programma televisivo Unexplained Files, Discovery Channel 2013/2014.

I cani sono animali con una vista poco acuta che attirati dall’odore forte non vedono il parapetto e precipitano giù dal ponte ma non tendono al suicidio.

In Scozia sono presenti circa ventimila visoni, ma fenomeni di questo tipo avvengono solo in questo paese.

Il ponte dove si suicidano i cani

Un altra teoria invece affronta la presenza di possibili interferenze magnetiche oppure suoni d’acqua di natura ipnotica nella zona che potrebbero confondere i cani facendoli cadere dal parapetto.

Uno special su Channel 5 cerca di spiegare questo strano fenomeno cercando di darne una risposta con le teorie sopra riportate.

Gli abitanti sono esortati a passeggiare sul ponte con il cane al guinzaglio come su suggerimento delle autorità locali. 

Approfondimenti:

Di seguito visita la sezion del sito su i luoghi misteriosi e le scoperte più strane nel mondo come  la foresta incantata in Russia e Naica, la grotta di cristallo, il mantello che rende invisibile e tanto altro.

 

Quando gli archeologi giocano col fuoco

Quando gli archeologi giocano col fuoco

Articolo scritto da Francesco Lamendola: Quando gli archeologi giocano col fuoco

Archeologi

Nulla di più normale, anzi, di più benemerito, per la moderna archeologia, che violare antiche sepolture, profanare mummie e cadaveri, trafugandone i resti. Resti che verranno in seguito sottoposti a chissà quali esami di laboratorio per poi annunciare trionfalmente sulla stampa a grande tiratura:

“Tutankhamon è morto assassinato”; oppure: “Risolto il mistero dei sacrifici umani presso i Fenici e i Cartaginesi”.

Certo, perché gli studiosi non dovrebbero penetrare a piacere in quei luoghi, perché non dovrebbero manipolare senza riguardi quelle povere ossa umane? Soprattutto quando gli archeologi giocano col fuoco.

Lo fanno in nome della scienza, dunque per il bene dell’umanità, ma quando gli archeologi giocano col fuoco?

Qualcuno potrebbe ingenuamente obiettare che, per il bene dell’umanità, forse  non è poi così fondamentale chiarire la natura della morte di un lontanissimo faraone, ma è chiaro che non si tratta di questo o quel fatto. Si tratta del diritto della scienza di indagare a trecentosessanta gradi.

La scienza, secondo il moderno paradigma involuzionista, non deve porre alcun limite alla propria ricerca: tutto quello che essa è in gradi di indagare, dev’essere indagato; tutto quello che è in grado di fare – clonazione, manipolazione genetica, fecondazione extrauterina – deve essere fatto.

Altrimenti, affermano i campioni del moderno scientismo, sarebbe come se Galilei fosse stato processato invano, e invano il copernicanesimo fosse stato condannato dal Santo Uffizio.

Ritorno al Medioevo?

E noi non vogliamo mica tornare al Medioevo e alla Controriforma, non è vero solo perchè gli archeologi giocano col fuoco?

“Aver portato alla luce certe vestigia è la stessa cosa che aver disseppellito un cadavere, con l’aggravante però, dato che questi resti sono collegati ad una condizione di degenerazione, che si tratta del cadavere di un appestato o di un lebbroso, ancora infetto e portatore di terribili germi.

“Gli archeologi profani, totalmente ignari di certi rischi, si aggirano tranquillamente tra queste rovine, ed hanno addirittura creato una disciplina scientifica su come effettuare scavi sistematici e il più profondi possibile.

“E se pure sono bravissimi in questa loro attività nel rimuovere la terra e la sabbia che ricopre queste rovine, in realtà non sanno nemmeno cosa vanno a smuovere, e con quali effetti.

Le spedizioni e le disgrazie

“Può succedere poi- come è realmente successo – che intere spedizioni incontrino una serie impressionante di disgrazie e che in parecchi periscano, così come capitò negli Anni Venti a numerose persone collegate alla scoperta in Egitto della tomba di Tutankhamon, che morirono in breve tempo e in strane circostanze.

“Si parlò allora di una ‘vendetta dei faraoni’ e tutto questo, naturalmente, venne considerato dagli scienziati ‘superstizione ed ignoranza’; ma, dato che episodi simili sono realmente accaduti, bisognerebbe stabilire chi sia effettivamente l’ignorante e se la superstizione a cui si allude non sia un genere del tutto nuovo, moderno, che si potrebbe meglio attribuire alla scienza e chiamare ‘superstizione scientifica’”.

(da Fabio Ragno, Iniziazione ai Miti della Storia. Frammenti di una storia perduta, Roma, Edizioni Mediterranee, 1999, p. 137). Complemento dell’articolo “Quando gli archeologi giocano col fuoco”

Se tutto questo è vero, allora bisogna ripensare i modi, le finalità e la natura stessa dell’archeologia.

È possibile che lo scorrere del tempo, di per sé, renda lecito tutto: la profanazione dei luoghi sacri, il forzamento delle necropoli, la dispersione dei cadaveri?

Quando gli archeologi giocano col fuoco

Tutte azioni che, effettuate in un moderno cimitero o in un moderno luogo di culto, sarebbero considerate al tempo stesso reati dal punto di vista del codice penale, e sacrilegi dal punto di vista (per coloro che vi credono) della legge divina. E che in effetti talora accadono: e gli autori di tali profanazioni sono, in genere, gli adepti di qualche setta satanica.

Dunque, quegli archeologi che senza alcun riguardo compiono profanazioni nei luoghi di culto e di sepoltura o, peggio, manipolano antichissime salme, sono i portatori – più o meno inconsapevoli – di un agire satanico.

Dal punto di vista delle forze che essi mettono in movimento, si possono paragonare agli untori di manzoniana memoria:

deliberati diffusori di germi pestilenziali. Con la sola differenza che gli untori, nella Milano del 1630, probabilmente non esistettero (esistettero, questo sì, gli stregoni: ed esistono ancora); mentre gli untori della modernità esistono eccome: sono gli archeologi senza coscienza e senza alcun senso del limite, umano e divino.

Ci sia permesso riportare un brano del libro di Franco Rho Perù e fantasmi

(Novara, De Agostini, 1964, pp. 43-49.) Complemento dell’articolo “Quando gli archeologi giocano col fuoco”

La spedizione archeologica

L’autore aveva partecipato aduna spedizione archeologica nel paese sudamericano ed era venuto a contatto con la credenza, fortemente radicata presso gli abitanti di quei luoghi, della presenza reale e operante degli spiriti degli antichi sovrani.

Particolarmente cariche di ‘presenze’ erano percepite le huacas, ossia quelle piramidi irregolari di argilla, frequenti nel nord del Perù e specialmente nella zona costiera ai piedi della Cordigliera delle Ande, che servivano per riti religiosi nel periodo precedente gli Incas.

Si noti che l’atteggiamento dell’autore è sostanzialmente scettico, e tuttavia un brivido di perplessità sembra sfiorarlo, laddove egli riferisce certi fatti e certe dicerie che, fra gli indigeni, sono considerati come perfettamente verosimili e veritieri.

“Pablo Sànchez ci guardava con occhi allucinati e le sue labbra esangui scoprivano denti cariati in un ghigno sproporzionato alla sua figura meschina

Le mani di Pblo si muovevano senza una meta, indugiando sul collo sporco della camicia, correndo alle tasche sfondate, risalendo al bavero della giacchetta di tela, scendendo ai pantaloni sfilacciati.

“Gli indiani sono rispettosi e spesso anche cordiali con il gringo, ma quello non sembrava lieto di vederci, quasi fossimo entrati in casa sua senza invito e invece si trattava di unahuaca aperta sul deserto da ritenersi suolo pubblico, non privato.

“Pablo sembrò addomesticarsi davanti al saluto ossequioso di Jorge, ma non abbandonò del tutto il suo fiero atteggiamento nemmeno davanti alle nostre mani tese, che strinse con degnazione.

La huaca è mia

“- La huaca è mia – disse Pablo.

” – Ci permettete di guardarla? – Jorge chiese.

” – Lui mi ha nominato custode – brontolò l’indiano.

” – Lui chi? – domandai. “Sànchez spostò lo sguardo da Jorge a me, incredulo di tanta ignoranza; togliendosi il sombrero di paglia, lo agitò dietro a sé, dietro l’imboccatura di una caverna nell’argilla: – Lui – mormorò con rispetto – il re.

” – Certo, il re – disse Jorge.

“L’indiano s’accosciò rassegnato all’intrusione, alzò le sopracciglia cespugliose sugli occhi febbricitanti.

“- Da dove venite? – chiese. – Venite dal Sud? Venite da Lima?  Il senor – continuò additando il professor Muelle – è un indio, come me, ma gli altri sono gringos.

“Jorge ardeva dal desiderio di ficcare la testa nell’imboccatura della caverna, ma fra le doti sue c’è la pazienza, e pazientemente spiegò: – Siamo venuti per sapere le storie de re; ecco, vedi, ci togliamo il cappello.

“Ci affrettammo a scoprirci il capo, ma il tono di Pablo ridiventò aggressivo: – Volete profanare tombe? -.

” – Vogliamo studiarle e lasciare tutto come si trova -, disse Bonavia in tono suadente.

” – Deve parlare soltanto l’indio – ordinò Pablo. – Non è per offendere; il re non mi permette di parlare con gente d’altra razza. –

Quando gli archeologi giocano col fuoco

“Jorge s’era seduto accanto al ‘custode’ e volle che offrissimo sigarette; l’ometto scuro ne prese un bel po’, rabbonito, pronto però a tornare in guardia.

Cominciò un colloquio lungo; Jorge parlava per illustrargli la nostra attività e spesso Pablo lo interrompeva per qualche domanda; alla fine si rimise in piedi e disse: – Guardate! -.

“Si volse, correndo verso l’imboccatura della caverna ove entrò, investito da una nuvola di pipistrelli: gli sporchi volatili turbinavano fin sulla soglia dalla quale li respingeva la luce violenta

Stridevano sbattendo le ali con un rumore di vento e, ormai scomparso nel buio, Sànchez gridò: – Non entrate! Non entrate! -.

“Duccio non intendeva obbedire al vecchio, ma non appena oltrepassata l’imboccatura della huaca fu scacciato dai pipistrelli. Ansimò: – Ci sono anche le vespe a migliaia?-.

“L’ometto tornò tranquillo e ridacchiò: – A me non fanno niente. -. “Il fenomeno ci sorprese poiché sembrava possibile superare l’avversione per i pipistrelli, ma non l’assalto delle vespe.

“- Hai pelle dura – dissi all’indiano.

“- Sono il custode del re. Nulla può accadermi -, rispose con sussiego.

“Jorge riteneva che il nostro uomo fosse maturo e gli tese dieci soles. ”

– racconta com’è la storia – lo pregò e l’altro ficcò il denaro in una tasca senza guardarlo; fissava invece un punto lontano, all’orizzonte del deserto, dietro le nostre spalle; assunse un’aria ispirata.

Il re e la sua regina:

” – Li sento parlare ogni giorno, verso il tramonto e li ascolto fino al mattino: il e e la sua regina.

Parlano dal profondo della grotta ove nessuno può giungere senza che i pipistrelli gli suggano il sangue e le vespe lo feriscano a morte.

Soltanto a me è permesso, solo a me. Le vespe uccidono per ordine del monarca, uccidono i profanatori. “Come vide che stavo scrivendo chiese: – Perché scrive? -.

” – È un periodista – gli spiegò Jorge – si occupa di giornali.

” – Bene – concluse il vecchio soddisfatto.

“Guardò di nuovo il deserto; la sua persona tremava e grosse gocce di sudore gli colavano fra la barba rada; tremava e sudava e non parlava spedito, come prima.

Farfugliava parole sconnesse; Jorge soltanto poteva connettere, scartando l’inutile e annotando la sostanza. “Pablo Sànchez non simulava, era caduto in una specie di trance e sempre lo scuotevano sussulti e il sudore abbondante gli finiva nel collo della camicia.

“Secondo Pablo, il re comandava quarantamila anime, quarantamila spiriti, quelli della huaca e del circondario.

Le ombre senza volto.

” – Le posso vedere – diceva l’indiano – sono ombre indefinite, senza volto; vedo il viso del re e non quello della regina che gli siede al fianco.

Il re parla castigliano, come la gente d’oggi. “Sànchez si portò le mani al petto, quasi tentasse di calmare l’affanno che lo opprimeva, poi disse: -Il vento gelido che sentite è il loro alito che muove le sabbie e le sabbie sono il loro manto.

Fanno profezie e prima che i germogli sboccino sulle quebradas [vallate], saprò se il raccolto sarà abbondante o scarso. Fanno profezie suoi raccolti. 

Dopo un poco mormorò: – Posso dire se i parassiti o la siccità renderanno vana la fatica dei contadini; posso sapere se vivremo un anno d0’abbondana o di fame.

– “Il sole calava dietro la huaca; il freddo invase istantaneamente il deserto e rabbrividimmo, ma nessuno di noi si mosse per andare alla jeep a prendere i giubbotti; il racconto del vecchio ci paralizzava seduto sulla sabbia ancora tiepida.

” – nelle notti di luna – gridò Pablo agitandosi – il re mi grida di stare lontano; l’ira sua colpirebbe anche me, i fantasmi non vogliono luce, vogliono l’ombra eterna, abissi di buio, ombra, ombra, ombra?

-. Il grido dell’indiano si perse nel silenzio e muti restammo a lungo davanti al suo corpo inanimato.

“Infine l’uomo si girò faticosamente mettendosi ginocchioni; con le palme a terra volse il viso a noi, poi con un gemito, si levò sulle gambe malferme dirigendosi all’ingresso della huaca entro la quale scomparve.

Il dottore si alzò brontolando:

“È un turlupinatore, ci lasciamo fregare?-.

” – Sì – gli fece Duccio – è un pazzo –

“Jorge sorrise e disse che il vecchio non era pazzo o un mistificatore: vedeva effettivamente il re, la regina e i fantasmi. ”

– Ma come è possibile – chiesi – credere ai fantasmi? -. “

– Non avete letto le note di Fawcett su certi fenomeni? Il colonnello non fu uomo da farsi influenzare dall’ambiente e dal clima; un anglosassone come quello era essenzialmente pratico?-. ”

– E lei – Chierego osservò – che ha studiato a Berlino con Hule, che ha dipinto a Parigi, può credere ancora a certe storie? -.

” – Sono pure un buon cattolico – disse Jorge – ma conosco il Perù, conosco la gente della costa e gli indios della sierra e conosco, pur senza spiegarmeli, certi strani fatti: sono accaduti e accadono.

Non so altro -. “Avevamo incontrato Pblo Sànchez a Pacanga, presso Caìn, un pueblecito [piccolo villaggio] misero di contadini, nel bacino dello Jequetepeque, presso la costa, a monte della Panamericana.

“A Pacanga c’è una necropoli inesplorata che prende appunto il nome da Caìn e la huaca del re si chiama Las Estacas.

Muelle e Duccio effettuarono un sopralluogo minuzioso, disegnando schizzi e scrivendo annotazioni e solo a notte tornammo al pueblo ove chiedemmo di Sànchez. Nessuno lo conosceva e nemmeno si sapeva della leggenda sulle quarantamila anime a disposizione del re. “Jorge, con un risolino enigmatico chiese:

Esiste davvero Sànchez?

“Sulla Panamericana, per tornare a Guadalupe, nessuno parlò.

Che succederebbe, se ci lasciassimo suggestionare dalle mille leggende peruviane?

I frequenti fuochi fatui sul deserto sono dati dalle ossa dei trapassati, la chimica spiega tranquillamente la faccenda, ma i fantasmi, chi mai li ha visti?

” – Se lei non li ha visti – osservò Jorge – ciò non significa che nessuno li abbia veduti. È mai stato la notte nel deserto presso le huacas?

” – La fantasia dell’indiano è fervida – continuò Muelle – come del resto la fantasia di tutti i popoli semplici e primitivi.

Così nascono le storie dei duendes, gli spettri tanto noti a Fawcett; l’episodio più strano da lui riferito è successo in Bolivia, al posto di ristoro governativo di Yani dove, negli ultimi anni del secolo scorso, fu trovato un enorme giacimento d’oro –

“Quella storia è strana: due ufficiali boliviani di ritorno dal Beni, scesero giù a Yani fermandosi ad un tambo per passarvi la notte; vedendo una ragazza bellissima sulla soglia di una casa accanto al tambo, giocarono a testa e croce, con una moneta, a chi spettasse corteggiarla; l’ufficiale che perdette pernottò nella casa del corregidor, il capo del villaggio, l’altro se ne andò.

Non fece più ritorno e la sua testa mozza fu rinvenuta sul pavimento di una casa diroccata, la stessa ove l’ufficiale superstite aveva scorto – e lo giurò – la magnifica ragazza.

“Quella casa, spiegò il corregidor, non era abitata da chissà quanto tempo e la ragazza era un duende, un fantasma che non si faceva scorgere dagli indigeni, ma soltanto dai forestieri.

Fawcett ed i Duendes

“Fawcett ebbe anche un’avventura personale con i duendes a Santa Cruz, un villaggio nei dintorni di La Paz; così ne scrisse: ”

« La prima notte sprangai le porte – aveva preso in affitto una casa disabitata – e l’arriero [addetto alla cura degli asini; mulattiere] se ne andò nel suo appartamento.

Mi allungai nell’amaca e mi disposi a riposare comodamente tutta la notte. Mentre me ne stavo disteso e dopo avere spento la luce, in attesa del sonno udii qualcosa che si muoveva sul pavimento.  Serpenti! Pensai e accasi immediatamente la luce.

Non vidi nulla; pensai quindi che fosse stato l’arriero a muoversi dall’altra parte del muro. Ma, appena spensi di nuovo la luce, risentii lo strano rumore, mentre un pollo attraversava starnazzando la stanza  con rauche grida.

Di nuovo accesi la luce, chiedendomi  come mai fosse entrato quell’animale e di nuovo non vidi nulla..

Ma, appena spensi la luce, ancora una volta udii camminare sul pavimento, come se un vecchio zoppo vi si trascinasse,  calzato di pantofole di feltro. Era veramente troppo. Il mattino dopo, l’arriero venne da me tutto spaventato.

I fantasmi

“Fawcett continua scrivendo che il pover’uomo intendeva lasciarlo perché nella casa c’erano i bultos, cioè i fantasmi.

Il colonnello non era tipo da lasciarsi sopraffare da simili storie e la notte seguente si stese tranquillamente nell’amaca.

Ma nell’attimo preciso in cui si trovò al buio, udì un rumore, come di un libro gettato attraverso la stanza; a luce accesa non vide nulla ma più tardi, di nuovo al buio, tornò il pollo a starnazzare; per avere tranquillità l’esploratore si coricò con la luce piena.

Il duende?

La terza notte vennero fuori colpi e rumore di mobili fracassati, di tavole sul pavimento, di altri polli peggio dei primi.

“Fawcett non poteva dormire e lasciò la casa».

“Le luci della plaza de armas di Guadalupe ci distolsero dalle nostre meditazioni sui duendes.

Chierego saltò dalla jeep osservando allegramente che avrebbe mangiato anche un fantasma “

 Non crede nemmeno a Fawcett – mi disse Jorge con il suo sorriso –.

” Questo brano presenta un notevole interesse e si presta a più d’una osservazione.

Presso i popoli nativi si è conservato un forte legame tra passato e presente

1-In primo luogo, presso i popoli nativi si è conservato un forte legame tra passato e presente, tra vivi e morte.

Il legame che la modernità, per la sua stessa natura, ha reciso da tempo, considerandolo uno dei maggiori ostacoli al cosiddetto progresso.

È quel legame a far sì che le società native si sentano in certo qual modo responsabili dei luoghi sacri, e particolarmente delle sepolture reali, nei confronti di ogni profanazione condotta dagli stranieri.

Davanti alla pretesa degli archeologi di penetrare nelle sepolture, gli indigeni reagiscono come reagiremmo noi davanti alla pretesa di alcuni sedicenti studiosi stranieri di violare i nostri cimiteri e di scassinare e depredare le nostre chiese.

Presso i popoli nativi non esistono i confini

2-In secondo luogo, presso i popoli nativi non esistono i confini neti e radicali tra la vita e la morte che noi a occidentali moderni, figli di Cartesio e di Francesco Bacone, sembrano così ovvi e scontati.

Di conseguenza, coloro che vivono presso le antichissime sepolture – in qualità di custodi (non per incarico di qualche ente governativo, ma per una chiamata dall’alto) –  percepiscono la presenza reale degli spiriti che vi dimorano, con la stessa evidenza con la quale noi percepiamo la presenza fisica dei viventi.

Essi hanno sviluppato, per così dire, una seconda vista, che non è frutto di allucinazione ma, al contrario, di un affinamento dei sensi comuni. 

Un po’ come gli animali, i quali possono vedere e udire colori e suoni che sfuggono alla vista e all’udito degli umani.

Il rispetto sacrale e il reverenziale timore

3-Il rispetto sacrale e il reverenziale timore che circonda i luoghi saturi della presenza dei trapassati non sono affatto una forma di superstizione (così come non lo è la riluttanza a lasciarsi, ad es., fotografare, cioè derubare di un doppio vitale).

Se a noi possono apparire tali, è solo perché, da tre o quattro secoli – ossia, appunto, dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica – abbiamo introiettato la convinzione che la morte sia la fine di tutto.

Come fece scrivere l’ex abate Fouché, quando era rappresentante della Convenzione in missione nel 1793 sulla porta dei cimiteri francesi: “La morte è un sonno eterno”.

La credenza nell’immortalità dell’anima, cacciata dalla porta (dallo scientismo imperante), è rientrata però dalla finestre.

La ritroviamosotto forme degradate, dallo spiritismo alle pratiche di necromanzia e magia nera.

Gli animali sembrano e le presenze

4-Gli animali sembrano in grado di percepire quelle presenze che aleggiano nei luoghi impregnati di energia psichica.

Come i templi e le antiche sepolture, e anche di sintonizzarsi con le condizioni psico-fisiche dei viventi lontani nello spazio.

Come la cagnetta preferita di lord Carnarvon, lo scopritore (o il profanatore?) della tomba di Tutankhamon.

Che alle quattro del mattino del 4 aprile 1923, ora di Londra, si rizzò improvvisamente sulle zampe e morì: erano le ore due al Cairo, e in quello stesso istante il suo padrone spirava. Mentre un inspiegabile blac-out gettava la metropoli egiziana nel buio più assoluto.

Lady Burghclere, sorella di lor Carnarvon, lo udì mormorare un attimo primo di spirare:

“Ho udito il richiamo di Tutankhamon; sto per seguirlo.”

(cfr., fra gli altri, Yves Naud, La maledizione dei faraoni, La Spezia, Fratelli Melita Editori, 1990, p. 380). Complemento dell’articolo “Quando gli archeologi giocano col fuoco”

La credenza nei fantasmi

5-La credenza nei fantasmi, ovviamente, è altra cosa nella credenza degli spiriti custodi dei luoghi sacri.

I fantasmi possono essere di vario genere.

Quello di cui parla il primo racconto di Fawcett, relativo ai due ufficiali boliviani e alla bellissima ragazza che era, poi, un duende, ricorda piuttosto quelli relativi alle lamie del mondo greco-romano e, in particolare, all’episodio riferito da Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana.

Si tratta, infatti, non soltanto di una pura apparizione, ma di un fantasma che, attraverso la seduzione sessuale, provoca la morte dei suoi amanti occasionali.

In tutta l’America latina questa credenza è vivissima (ma anche in altre culture, spec. asiatiche); ne troviamo un riflesso nel celebre romanzo di Jorge Amado Donna Flor e i suoi due mariti.

Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse a fantasie puramente letterarie.

Scrive Salvador Freixedo, ex gesuita messicano e studioso di fenomeni extra-terrestri.

“Quando ci si mette a studiare a fondo tutto ciò che ha a che vedere con la comunicazione tra vivi e defunti, si incontrano (?) casi straordinari, come quelli di coloro che vivono continuamente rapporti sessuali con defunti che si presentano tranquillamente nelle loro camere.

Questo avviene in genere con persone che praticano attivamente lo spiritismo, ma è considerato un grande peccato per le dottrine di questa scuola, soprattutto per coloro che seguono la linea kardechiana.”

(S. Freixedo, Contattati dagli Ufo!”, Hobby & Work ed., 1993, pp. 93-94).

Complemento dell’articolo “Quando gli archeologi giocano col fuoco”

La seconda testimonianza di Fawcett

6-La seconda testimonianza di Fawcett relativa ad una esperienza da lui personalmente, appare come il tipico caso di infestazione spiritica.

Non di poltergeist: non vi sono oggetti che volano; o meglio: gli ‘oggetti’ che volano per la stanza, così come gli animali e i rumori, non sono oggetti fisici, pur essendo estremamente reali (tanto da togliere il sonno).

Ricorda un po’ il celebre episodio della casa infestata dell’antica Atene, che fu ‘liberata’ dal filosofo Olimpiodoro (narrato da Plinio il Giovane in una sua celebre Epistola).

Difficile identificare l’origine dell’infestazione: non sembra trattarsi di un singolo spirito, ma di tutta una vita misteriosa che comprende uomini, animali e cose e che pare scaturire dalla casa stessa.

A meno che si tratti di ‘illusioni’ provocate da uno spirito infra-umano (diabolico?) allo scopo di confondere, ingannare, sconcertare i viventi e allontanarli da quel luogo, per qualche ignota ragione.

Una cosa, infine, sembra chiara: la moderna mentalità scientifica non possiede nemmeno gli strumenti concettuali per accostarsi ai fenomeni metapsichici relativi a particolari luoghi ritenuti ‘sacri’ (anche nel senso di ‘maledetti’, com’era nell’etimologia originaria del termine).

Tanto meno  essa possiede una pur vaga idea delle forze occulte che tali luoghi custodiscono, specialmente se deputati alla conservazione di cadaveri mummificati.

L’opera dissennata e sacrilega degli archeologi può provocare delle autentiche irruzioni di energie malefiche nel mondo dei viventi, aprendo porte che dovrebbero rimanere sigillate, trasportando spoglie umane che dovrebbero riposare in pace.

Chi può dire se queste irruzioni non sono state all’origine di certi fenomeni storici di ottenebramento collettivo delle coscienze, scatenando conflitti sanguinosi di enorme portata distruttiva?

Scrive ancora Fabio Ragno:

“La penetrazione delle forze infere nel nostro mondo non si limita a una manifestazione di influssi, ma tende a una materializzazione sul piano fisico, che si verifica mediante una presa di possesso di potenzialità umane particolarmente grossolane, cioè con l’entrata – in senso letterale – in determinati individui.(?)

“La penetrazione delle forze infere tende infatti, nella sua massima espressione, alla creazione di un essere umano; un essere umano del tutto speciale, infero nel senso più completo della parola, da considerare alla stregua di una ‘soglia’ o come una via diretta e definitiva di accesso di queste forze nella materia.

“Tutto ciò al fine di ‘prendere’ il mondo, scopo ultimo che muove le forze infere.

“Per comprendere meglio quest’ultimo concetto di ‘conquista del mondo’ (ché altrimenti potrebbe apparire l’equivalente di una banale ambizione umana), si potrebbe definirlo come il progetto di un ‘assorbimento del mondo’ per acquistarne la consistenza, da intendersi come una vera e propria necessità di esistenza per queste forze, destinate altrimenti a qualcosa di simile a una dispersione da parte della Potenza Celeste.

“Per realizzare ‘l’essere umano infernale’ queste forze devono necessariamente operare su due piani: quello fisico (il corpo biologico animale) e, soprattutto, quello metafisico, ciò che costituisce per loro la ‘soglia’ vera e propria del mondo.

“Ora, nella normale costituzione di un essere umano l’intervento metafisico è dato da una scintilla divina che ‘scende’ e penetra in un corpo.

All’opposto, le forze infere (che invece devono effettuare una ‘risalita’ al piano umano) per realizzare il processo creativo devono trarre un’analoga potenza alla ‘scintilla’ lì dove essa si trova, cioè dagli stessi esseri umani e, più esattamente, dai residuipsichici – particelle infinitesime o scorie dell’anima – che permangono legati ai cadaveri dopo la morte.

I residui psichici

“Evidentemente, il processo può essere realizzato quando innumerevoli residui psichici di innumerevoli morti possono essere condensati, e questo può avvenire quando vi sia una strage immensa di individui in una breve scala temporale.

“La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono un esempio impressionante di questo?” (op. cit., p. 138). complemento dell’articolo “Quando gli archeologi giocano col fuoco”

Oltre ai gas, alle particelle radioattive, ai virus preparati nei laboratori militari e rilasciati con diabolica consapevolezza, le guerre favoriscono dunque una diffusione di residui psichici impregnati di fortissima negatività, provenendo da grandi masse di individui uccisi violentemente.

Residui psichici che si disperdono, come epidemie, dai campi di battaglia e dalle città distrutte dai bombardamenti, così come aleggiano intorno ai grandi mattatoi di Chicago e di altri centri della cosiddetta industria alimentare.

Perché anche gli animali, morendo di morte violenta, rilasciano terribili residui psichici in grado di contaminare l’atmosfera.

Nella profanazione delle antiche tombe si verifica un fenomeno analogo: e, se minore è il numero dei residui psichici rilasciati all’esterno, tanto più intensa è la loro carica negativa.

Perché i processi di mummificazione ne hanno ritardato la naturale dispersione ed essi hanno conservato, in maniera artificiale, una straordinaria carica energetica, anche ad opera dei rituali magici che ne hanno accompagnato la mummificazione, la sepoltura e i rituali funebri.

Riportare alla luce quelle sepolture e manomettere quei corpi significa veramente scherzare col fuoco.

Forse lord Carnarvon lo aveva compreso – ma ormai troppo tardi – quando pronunciò, sul letto di morte, quelle sue ultime parole:

Ho udito il richiamo di Tutankhamon; sto per seguirlo”.                                        

Articolo scritto da Francesco Lamendola : Quando gli archeologi giocano col fuoco

I misteri della terra dei fiordi:la tribù perduta

I misteri della terra dei fiordi:la tribù perduta

Articolo di Francesco Lamendola: I misteri della terra dei fiordi:la tribù perduta

Fiordo Nuova Zelanda Foto di Gary Johnston da Pixabay

 

I misteri della terra dei fiordi

Misteriosa è la Fiordland, l’estrema punta sud-occidentale della Nuova Zelanda.

E’ una terra incredibilmente fuori del tempo, ammantata di grandi foreste che, a dispetto del clima temperato-fresco (a sud di essa c’è solo l’Antartide), ricevono una quantità di precipitazione paragonabile a quella dei luoghi più piovosi del pianeta.

Costellata di laghi dalle acque cristalline e dominata da montagne, ghiacciai e cascate spettacolari, essa esercita un fascino potente sul visitatore.

È una terra ove l’uomo non si è mai insediato da padrone né il maori, né il bianco , limitandosi a costeggiarne gli altissimi fiordi affacciati sul Pacifico meridionale. Per poi stabilirsi, ma con estrema discrezione e quasi in punta di piedi, ai suoi margini, ove il terreno è meno accidentato e il clima un po’ meno piovoso.

La Fiordland è in grado di riservare molte sorprese, specie nel campo della criptozoologia.

Poco dopo la seconda guerra mondiale vi è stato riscoperto, vivo e vegeto, un uccello straordinario che si credeva estinto da gran tempo, il takahe.

Alcuni credono perfino (o sperano) che nelle sue dense foreste si celi qualche esemplare minore del famoso Moa (Dinornis maximus).

Il Moa il più grande uccello non volatore mai vissuto sulla Terra, almeno in tempi storici. Ma un mistero ancora più grande è quello della Tribù Perduta: una tradizione che alcuni vorrebbero puramente leggendaria.

Mentre esistono seri elementi per pensare ch’essa possieda una vera e propria base storica, e che si riferisca ad avvenimenti reali, peraltro misteriosi e difficili da spiegare.

Elementi che rimettono in discussione l’inspiegabile sparizione di singoli individui ma anche, talvolta, di interi gruppi umani. Persone delle quali la Storia ha perso le tracce.

Senza avere nemmeno (come nel caso dell’armata scomparsa di Cambise nel deserto egiziano) il più piccolo indizio su dove possano essere andati a finire?

La leggenda o la storia dei misteri della terra dei fiordi

La leggenda, o la storia (difficile dire quale delle due) della “Tribù Perduta” della Nuova Zelanda è una delle più singolari e affascinanti del suo genere.

La scomparsa di singoli individui, magari famosi (come nel caso di Ettore Maiorana) ha sempre suscitato curiosità e stupore.

Ma la scomparsa di un intero gruppo umano, relativamente numeroso, è uno di quei fatti che sfidano la nostra capacità di comprensione.

In questo caso, poi, mancano del tutto quegli indizi che possono illuminare l’enigma di altri casi analoghi, come quello, assai noto, dell’armata persiana di Cambise.

L’armata scomparve mentre marciava dalla valle del Nilo verso l’Oasi di Siwa, nel Deserto Libico.

(1) Pertanto, la reazione istintiva davanti a un caso come quello della “Tribù Perduta” è quella del rifiuto preconcetto anche della sola possibilità.

Sentiamo che, ammettendola, ci spingeremmo su un terreno totalmente sconosciuto, privo di tutti gli abituali punti di riferimento.

Ma la verità è che questo sarebbe un atteggiamento irrazionale, e non già accogliere il fatto sia pure come ipotesi di ricerca.

Il mistero, infatti, supera per definizione le nostre possibilità di comprensione sul piano strettamente logico-razionale, ma nulla e nessuna ci assicura che la logica formale sia la sola ed autentica forma di conoscenza della realtà.

Bisogna avere l’umiltà di riconoscersi piccoli davanti al mistero, e, al tempo stesso, trovare il coraggio intellettuale di prendere in considerazione altre forme e altre modalità di esperire il mondo intorno a noi.

Alla fine della presente ricerca tenteremo, comunque, di formulare alcune ipotesi per spiegare la scomparsa della “Tribù Perduta”.

Alcune ipotesi sulla “Tribù perduta.”

I misteri della terra dei fiordi

Ma con la chiara e onesta consapevolezza che solo di ipotesi si tratta, e che il mistero, in definitiva, è destinato a rimanere tale.

Per quanto noi possiamo considerarlo scomodo o irritante per la nostra mentalità eccessivamente dominata da un Logos strumentale e calcolante.

In Italia, che noi sappiamo, non esiste una bibliografia neanche minima sull’argomento.

Siamo stati noi, più di venti anni fa, a introdurre il tema della leggendaria “Tribù Perduta” del popolo maori, nel contesto di un’opera letteraria di fantasia, sia pure basata su dati storici reali. (2) In quella sede ci siamo permessi una sola licenza poetica, quella di collegare due tradizioni storiche appartenenti ad epoche diverse.

Quella sulla “Tribù Perduta”, che risale al XVIII secolo, e quella del viaggio verso l’Antartide del navigatore Hui-Te-Rangi-Ora, che è molto più antica, poiché andrebbe collocato verso il VII o l’VIII sec. d. C.

Della seconda ci siamo poi ampiamente occupati in una ricostruzione scientifica che è stata pubblicata su una rivista specializzata di geografia polare.

(3) Comunque, nel racconto La bambina dei sogni ci eravamo limitati a porre la questione della scomparsa della tribù maori.

Senza più riprenderla in una prospettiva di ricostruzione storica.

Il primo elemento di cui occorre tener conto, in quella vicenda, è la scarsità della popolazione indigena nell’Isola del Sud dell’arcipelago neozelandese.

Come l’Isola Stewart (la terza in ordine di grandezza), rimase ai margini della colonizzazione polinesiana.

La popolazione dei Maori

I misteri della terra dei fiordi

I Maori, che costituirono la “seconda ondata” di popolamento dell’arcipelago (prima di loro era giunta una popolazione di origini incerte, i “cacciatori di moa”, che iniziarono il dissesto del manto vegetazionale e della fauna locale).

Essi venivano quasi certamente da Hawaiki e, con la loro tecnologia rudimentale, ignari della lavorazione dei metalli e della terraglia, non amavano molto il clima decisamente fresco dell’Isola del Sud.

Scrivono in proposito G. Corna Pellegrini e S. Raiteri:

“L’origine polinesiana dei maori li porta a scegliere, per il loro insediamento, le regioni più settentrionali dell’Isola del Nord, dove ritrovano un clima più simile a quello delle isole dalle quali provengono”.

E ancora: “Fino agli inizi dell’Ottocento gli abitanti della Nuova Zelanda erano unicamente Maori. E si concentravano quasi tutti nell’isola del Nord, preferenziando soprattutto le zone costiere”.

(4) Benché poco numerosi, i Maori dell’isola del Sud proseguirono ed aggravarono lo squilibro ecologico già innescato dai loro predecessori.

“Le foreste, che già avevano iniziato a morire – sostengono D. Lews e W. Forman – e i loro abitanti, i moa, alla fine furono costretti a soccombere al fuoco. Il fuoco era impiegato dai Maori come metodo di caccia. Il fuoco è sempre stato un’arma molto importante del cacciatore.

Nel breve volgere di 250 anni, tra il 1.100 e il 1.350, la distruzione delle foreste che ancora ricoprivano le pianure di Canterbury e Otago era stata portata a compimento dai cacciatori.

Vaste estensioni di cespugli, disseminate di faggi, sostituirono le foreste bruciate e fornirono un ambiente povero, privo di semi e bacche.

Il declino dei Moa, i misteri della terra dei fiordi

I moa subirono una decimazione e verso il XVII secolo erano estinti; parallelamente, anche la popolazione di cacciatori declinò. Privati della principale risorsa di cibo, i Maori evacuarono le zone interne dell’Isola del Sud e si riportarono lungo le coste.

La mano dell’uomo, infine, che aveva alterato il fragile equilibrio della foresta tropicale e dei suoi abitanti incapaci di volare, gradualmente esaurì le risorse del mare e della costa la popolazione dell’isola del Sud declinò.”

(5) Se l’Isola del Sud era poco popolata, la sua estremità sud-occidentale era praticamente disabitata, come del resto lo è anche al giorno d’oggi. Si tratta di una regione dalla morfologia alpestre di recente modellamento glaciale, con valli strette e profonde, montagne scoscese, cascate spettacolari e numerosissimi laghi formati dallo scioglimento dei ghiacciai, molti dei quali tuttora esistenti.

Ammantata da una fitta e rigogliosa foresta di faggi antartici (Nothofagus) e di pino kauri dal tronco robustissimo, con un sottobosco di felci arborescenti del genere Dicksonia che ricordano l’antichissima vegetazione dell’era terziaria

(6), è sferzata dai venti occidentali delle medie latitudini australi

(7) e innaffiata da piogge copiosissime, quali si registrano solo nell’Amazzonia o nell’Assam, ai piedi della catena himalaiana.

Le nebbie sono frequenti e le giornate di sole non molto frequenti. I

l clima ricorda in tutto e per tutto quello dell’estremità meridionale del Cile, all’altro capo dell’immenso Oceano Pacifico.

Tali caratteristiche ne fanno una terra strana e difficile, che tiene lontana la presenza umana e che ha preservato a lungo la flora e la fauna indigena, sottraendola alle distruzioni recate dall’uomo.

I fiordi, Fiordland

I misteri della terra dei fiordi

I fiordi della zona costiera, che hanno dato il nome di Fiordland all’intera regione, erano bensì frequentati dai pescatori Maori.

Con le loro grandi piroghe, si spingevano non solo all’Isola Stewart, ma anche alle sub-antartiche Isole Auckland, 500 km a sud dell’estremità meridionale della Nuova Zelanda

(8); ma l’interno era ed è rimasto praticamente inaccessibile.

Questa la cornice in cui si svolge la vicenda legata alla tradizione della “Tribù Perduta” dei Maori.

Una cornice grandiosa e inquietante, uno dei pochi luoghi della Terra (oltre alle regioni polari) non si sente padrone assoluto né si comporta da prepotente invasore nei confronti delle altre forme di vita.

Ecco come la presentava, alcuni decenni fa, il giornalista John Forbis; e la sua descrizione è ancor valida, nonostante negli ultimissimi anni sia stato fatto qualche timido tentativo d’impiantare un turismo di massa.

Milford Sound ed i misteri della terra dei fiordi

Facendo perno sul fiordo più bello e famoso, il Milford Sound.

“A meno di 160 chilometri da Invercargill, un’operosa città della Nuova Zelanda, si stende per oltre 1.200.000 ettari una vasta regione selvaggia che ha spezzato il core a molti uomini.

Il luogo ha infranto i loro sogni e causato la loro morte e che ancor oggi nasconde molti misteri.

“Nessuno sa per certo cosa ci sia in quella plaga? Per la semplice ragione che nessuno l’ha mai vista” dice Nagel Duckworth, pilota neozelandese, allevatore di pecore a tempo pieno ed esploratore a tempo perso.

“Nota come Fiordland, o Terra dei fiordi, questa regione è tutta un continuo succedersi di cime e di voragini. Un susseguirsi di valli strette e profonde e di laghi nascosti, di nude vette alpine e di fitte foreste pluviali.

Da due secoli resiste ai reiterati tentativi di conquista da parte dell’uomo.

Era ancora quasi tutta da scoprire quando, nel 1904, fu dichiarata Parco Nazionale, e ogni successiva esplorazione è avvenuta in un certo senso casualmente.

Lungo il versante bagnato dal mare, numerose barche da pesca si addentrano nelle insenature e nei fiordi.

Ma anche dopo averli percorsi per tutta la loro lunghezza (in alcuni casi di una quarantina di chilometri) non è poi possibile esplorare l’interno. Perché ripide pareti di roccia e valli inaccessibili sbarrano il cammino.

“A chi viene dalle ondulate pianure meridionali dell’entroterra, la Fiordland si para davanti all’improvviso.

Laghi di un azzurro cobalto dai melodiosi nomi maori – Anau, Manapouri, Hauroko – estendono i loro bracci fra montagne dall’altezza vertiginosa.

La spedizione

I misteri della terra dei fiordi

Alcuni anni fa una spedizione tentò di attraversare i 30 chilometri che separano un lago interno dal Dusky Sound. Ma rinunciò al tentativo dopo tre settimane, quando non aveva percorso neanche metà della distanza.

“Ma non è solo il terreno a difendere la Fiordland dall’invasione dell’uomo. Improvvisi e violenti temporali fanno cadere su alcune zone quasi 800 centimetri di pioggia all’anno.

Aborigeni e cacciatori esperti dicono di essere rimasti bloccati dalla pioggia in queste regioni per settimane di fila.

Parlano di campeggi spazzati via da fiumi gonfiatisi da un giorno all’altro e di nebbie talmente fitte che “quando allunghi un braccio non vedi più la mano”. “

Sotto l’aspetto geologico, la Fiordland deve il suo profilo irregolare a tre distinte ere glaciali relativamente recenti.

L’ultimo ciclo glaciale ebbe fine circa 15.000 anni fa, dopo aver eroso e scolpito le vette frastagliate, le alte valli e le ampie voragini della regione.

” Il folclore maori, però, dà una spiegazione più romantica dell’origine di questa terra misteriosa.

Un dio benigno, dice la leggenda, volle rendere le montagne più utili all’uomo spaccandole con la sua massiccia ascia di pietra per lasciarvi entrare l’oceano.

All’inizio, a sud, i suoi fendenti erano ancora maldestri e il dio lasciò troppe isole.

Ma procedendo verso nord acquistò esperienza e con colpi ben precisi aprì fiordi stretti e profondi dove gli uomini potevano pescare senza pericolo e trovar riparo per le loro canoe.

“Sebbene la Fuordland rimanga una terra aspra e impervia, è lì che è avvenuta la prima colonizzazione europea della Nuova Zelanda.

Nel 1773 il capitano James Cook gettò l’ancora nel Dusky Sound per far riposare i suoi uomini e riparare la nave danneggiata da una tempesta.

Dusky Sound e la caccia

I misteri della terra dei fiordi

Cook vi rimase più di un mese e sono ancora visibili i ceppi di alcuni podocarpi, conifere dure come il ferro, che i marinai abbatterono per sgombrare un’area da utilizzare per osservazioni scientifiche.

“Dopo Cook, fino al 1823, Dusky Sound fu una base per la caccia abusiva alle foche e uno scalo di fortuna per baleniere.

Anche se di breve durata, fu la prima colonia europea della Nuova Zelanda e il fiordo fu il luogo dove sorse la prima casa, avvenne il primo naufragio e fu varata la prima nave costruita in Australasia.

“Ci furono navigatori che esplorarono le coste della Fiordland, scandagliarono il fondo marino e fecero carte nautiche di molte delle sue tortuose insenature, ma anche per questi coraggiosi l’entroterra presentava difficoltà insormontabili.

Ci vollero uomini di terra e non marinai per affrontare quelle impervie montagne.

Alcuni erano cercatori d’oro, altri scienziati, altri ancora pionieri in cerca di una facile via al mare attraverso la Fiordland.

“Ancor oggi c’è una sola carrozzabile che attraversa il Parco Nazionale da Te Anau a Milford Sound. Richiede agli automobilisti una rara perizia e vere acrobazie di guida.

Il percorso si snoda e sale con stretti tornanti a più di 900 metri ala testata della valle per scendere poi a precipizio attraverso una galleria lunga un chilometro.

È tipico della popolazione indigna tenace e resistente l’aver intrapreso il gigantesco lavoro di costruzione della galleria interamente a mano, senza avvalersi di altri mezzi, almeno nella fase iniziale.

“Anche se ci vorranno ancora molti anni per compilare i dati statistici di questa terra selvaggia, un’analisi approssimativa delle caratteristiche fisiche della regione offre un panorama grandioso.

I grandi fiordi

I misteri della terra dei fiordi

Entro i suoi confini si trovano quasi 200 isole, almeno 300 vette oltre i 1.500 metri, molte delle quali a picco sul mare, 12 ghiacciai, 15 grandi fiordi.

Fiordi che si suddividono in altri dieci fiordi minori le cui acque si addentrano tra le montagne, centinaia di cascate, tra le quali quelle di Sutherland, fra le più alte del mondo.

Non è mai stato fatto un conto preciso dei laghi della Fiordland, ma un’ipotesi attendibile li fa ammontare a oltre 300.

“Non ci vuole molto a capire che le stesse forze che tengono lontano l’uomo dalla Fiordland sono quelle che mantengono intatto l’ambiente naturale.

Dopo l’avvento dell’elicottero vaste zone delle catene montuose e degli altipiani erbosi sono state scoperte da pescatori, cacciatori professionisti e occasionalmente da cercatori d’oro.

Ma ci sono ancora molte valli inaccessibili dove con ogni probabilità vivono piante e uccelli praticamente scomparsi dal resto della Nuova Zelanda.

“Un campeggiatore ha raccontato di essere stato morso da un insetto simile a una formica lungo cinque centimetri.

Gli entomologi assicurano che nella Nuova Zelanda non esistono animali del genere un altro de i misteri della terra dei fiordi

A quanto pare, si può ancora sentir risuonare nelle foreste della Fiordland il verso del “gufo che ride“, simile al grido di una donna isterica.

I naturalisti, convinti che una specie di pipistrello (gli unici mammiferi nativi della Nuova Zelanda sono i pipistrelli) fosse ormai praticamente estinta. Ma si rallegrarono quando cacciatori di cervi capitati per caso da quelle parti riferirono di aver avvistato quegli animaletti in 68 località diverse della Fiordland.

“Ma niente finora ha eguagliato l’entusiasmo suscitato dalla riscoperta del takahe da parte del dottor Geoffrey Orbell.

Il dottor Orbell

I misteri della terra dei fiordi

Esperto cacciatore, già presidente dell’Associazione cacciatori di cervi della Nuova Zelanda, il dottor Orbell era a caccia in una zona poco conosciuta a occidente del lago Te Anau

Auando scoprì delle orme di uccello che senz’ombra di dubbio gli parvero del takahe, un grosso uccello incapace di volare appartenente alla famiglia dei rallidi e noto scientificamente con il nome di Notornis Mantelli.

Ma solo quattro esemplari vivi del takahe erano stati catturati fino ad allora, l’ultimo 50 anni prima, di modo che si riteneva fosse estinto.

“Tuttavia, un giorno dell’aprile 1948, il dottor Orbell seguì quella tenue traccia fino al centro della Fiordland. Risalì una valle che faceva capo al bacino di un lago glaciale dalle rive orlate d’erba.

Tra i ciuffi di agrostide e di poa, Orbell scoprì prove inconfondibili che grossi uccelli si erano nutriti di quelle graminacee.

“Prima che si facesse buio, Orbell aveva riscoperto il takahe. Successive esplorazioni hanno dimostrato che esemplari di questo rosso uccello sono largamente distribuiti tra i Monti Murchison.

La cosa più strana è che un uccello notevolmente più grosso di un gallo, con penne di color indaco e verde intenso, zampe e becco rossi, abbia potuto restare inosservato per tanto tempo senza che se ne sospettasse neppure l’esistenza.

Un takahe

Nel corso degli anni, tuttavia, la vastità della Fiordland ha occultato alla vista dell’uomo animali ben più grossi del takahe. Anche questo fenomeno fa parte dei misteri della terra dei fiordi

Le alci canadesi in libertà

I misteri della terra dei fiordi

Una sessantina di anni fa, dieci alci canadesi vennero messi in libertà sulla punta del Dusky Sound.

Queste grosse bestie dal carattere difficile scomparvero, senza lasciare la minima traccia, nell’intrico delle foreste pluviali. Per 17 anni si credette che gli alci fossero morti.

Verso la fine degli anni Venti il branco, apparentemente in ottima salute, riapparve ma sparì di nuovo altrettanto velocemente per non farsi più vedere per altri 15 anni.

Con grande sorpresa dei cacciatori e degli zoologi, due alci furono però catturati poco dopo il 1950. “Dovevano passare altri vent’anni prima che un alce emergesse dal cuore della Fiordland.

Ma negli ultimi due anni, esemplari di questo animale sono stati avvistati sempre più spesso nella regione.

E all’inizio di quest’anno [cioè il 1972, nota nostra] una spedizione di scienziati e di funzionari dei Parchi Nazionali ha trascorso tre settimane in quella zona.

Nella vana speranza di scoprire questi grossi mammiferi dalle ampie corna importati dal Canada.

“Per certi appassionati della Fiordland, tuttavia, la sopravvivenza dell’alce e la riscoperta del takahe sono solo un preludio a fatti più sensazionali.

Infatti aspettano con ansia il giorno in cui i dinornitidi, detti anche moa, uccelli incapaci di volare indigeni della Nuova Zelanda, faranno la loro ricomparsa dopo alcuni secoli.

“Si sa che almeno 20 generi di moa popolavano un tempo le isole della Nuova Zelanda. Il più grosso era il dinornis, un gigante alto tre metri che pesava fino a due quintali, uno dei più grossi uccelli conosciuti.

Il takahe non è realmente estinto?

I misteri della terra dei fiordi

Anche gli ornitologi più ottimisti riconoscono che il dinornis , cacciato dai Maori per anni e anni, si estinse almeno quattro secoli fa. Tuttavia nella famiglia dei moa cera un cugino di dimensioni più ridotte, poco più grosso di un tacchino.

Che ne è stato di lui? Non potrebbe essere sopravvissuto in questo lembo di terra inaccessibile?

“In linea generale, sono gli uomini più a contatto con la Fiordland – cacciatori, escursionisti, naturalisti – a nutrire le maggiori speranze che i moa delle foreste possano essere ancora vivi.

Harold Jacobs, capo delle guardie forestali del Parco Nazionale, dice:

“Questa è una terra selvaggia. Continuiamo a scoprire nuove specie di piante e di animali inferiori. Non mi sorprenderebbe se trovassimo dei moa.”

(9) -Un’immagine di un Moa su un francobololo.

Ed eccoci arrivati al suggestivo racconto relativo alla “Tribù Perduta”.

Un’ episodio che dovrebbe collocarsi verso la fine del XVIII secolo e addirittura dopo i primi due contatti dei Maori con gli Europei. Quello con il navigatore olandese Abel Tasman (1642-43) e quello del capitano James Cook (1769-1770).

Cook andava alla ricerca, per conto dell’Ammiragliato britannico, della mitica Terra Australe. (10)

“Ai neozelandesi romantici non contenti della possibilità di rivedere i moa, la Fiordland offre la legenda maori della “Tribù Perduta”. Gli storici fanno risalire l’episodio iniziale della vicenda al periodo immediatamente successivo alla permanenza del capitano Cook nel Dusky Sound, cioè intorno al 1780.

Tutto cominciò con una breve e sanguinosa contesa fra due fazioni tribali presso una piccola insenatura.

La fuga degli Hawea

I misteri della terra dei fiordi

Una sottotribù ribelle, quella degli Hawea, era fuggita dalla costa meridionale rifugiandosi presso il lago Te Anau dopo aver ucciso un capo-tribù.

Un gruppo di guerrieri deciso a vendicarlo aveva inseguito gli Hawea e in una furiosa battaglia sulle rive del lago li aveva sconfitti. Tuttavia almeno metà della tribù era scampata al massacro e si era rifugiata sulle montagne.

“Come i moa, gli alci e i takahe, gli Hawea furono inghiottiti dalla Fiordland e scomparvero senza lasciar traccia.

Benché nei primi tempi della colonizzazione si parlasse di tanto in tanto di “indigeni selvaggi” che vivevano nella regione delle foreste.

“”Potrebbe darsi” dice uno studioso di questa terra “che la ‘Tribù Perduta’ abbia mangiato l’ultimo moa intorno al 1840.”

“Nebbiosa, remota e imprevedibile, la Fiordland conserverà probabilmente i suoi segreti per molti anni avvenire, offrendo agli esploratori una perenne sfida.

Offrendo  ai neozelandesi un singolare anello di congiunzione con il lontano passato del loro paese.

Quando anche la valle più vicina era misteriosa, affascinante e irraggiungibile quasi quanto la superficie della luna.”

11) Un racconto più dettagliato e più completo dell’oscura vicenda è stato fatto dallo scrittore cecoslovacco Miloslav Stingl in una monografia sulle isole polinesiane.

Opera pubblicata dalla Casa Editrice Svoboda di Praga nel 1974. Egli è innanzi tutto un etnologo e un divulgatore scientifico, molto noto nel suo Paese e discretamente tradotto anche all’estero.

Il suo interesse per le popolazioni native – antiche e moderne – del Perù, del Messico, del Nord America e della Polinesia ne fa un osservatore particolarmente attento agli aspetti materiali e spirituali delle civiltà tradizionali extra-europee.

I misteri della terra dei fiordi

Dodici anni dopo l’opera è stata tradotta in italiano da una casa editrice specializzata in argomenti relativi al mare e alla navigazione,. Senza però che il capitolo in questione abbia suscitato particolari curiosità nel pubblico italiano o nella stampa, ormai fiorente (anche troppo!), che si occupa dell’insolito e del misterioso.

Riportiamo qui di seguito quanto scrive lo Stingl a proposito dei misteri della Fiordland e, in particolare, del mistero più fitto e più intrigante di tutti.

Quello della “Tribù Perduta” dei Maori.

La prima parte del capitolo intitolato

“Questi uomini si sono estinti come i moa”, in realtà, non parla della “Tribù Perduta” ma della pietra verde.

La pietra verde è la nefrite, di cui esistono ricchi giacimenti nel Milford Sound e anche altrove.

Mentre l’ultima parte si diffonde sugli uccelli neozelandesi e sulla scomparsa del Moa. Tuttavia abbiamo ritenuto di riportare integralmente l’intero capitolo, per uno scrupolo di completezza e per riguardo alle intenzioni dell’Autore.

Ci sarebbe parso poco corretto nei suoi confronti, infatti, spezzare arbitrariamente un discorso ch’egli aveva concepito come unitario.

“Verde come l’acqua del fiordo e non meno interessante è anche la pietra detta nefrite. Gli abitanti originari della Nuova Zelanda la trovarono qui, presso Milford, in maggiore quantità che altrove.

“Nel secolo scorso [cioè nel XIX, dato che l’Autore scrive nel 1974: nota nostra], anche i cacciatori di foche scoprirono la nefrite a Milford Sound.

Abbandonarono per essa la caccia, caricarono le loro panciute imbarcazioni di quella pietra rara e andarono in Cina, trasformando in moneta “l’oro dei Maori”. Ma inutilmente.

Il gusto cinese richiedeva un colore diverso da quel verde così caratteristico.

Oggi si conoscono diversi altri luoghi dove i primi abitanti della Nuova Zelanda hanno raccolto questo tesoro.

La nefrite dei maori

I misteri della terra dei fiordi

La foce del piccolo fiume Paroari, l’insenatura di Kotorepi, la alle di Teremaku e innanzi tutto Rimu, accanto a Milford Sound, il più ricco.

“Il primo oggetto maori tipico che ho avuto tra le mani era di nefrite.

La compagnia turistica neozelandese “Air New Zealand” di cui un aeroplano mi ha portato ad Auckland, regala ai passeggeri che comprano un biglietto aereo transpacifico un singolare e tradizionale ornamento maori, che qui chiamano heitiki.

“Nella mentalità religiosa degli abitanti originari della Nuova Zelanda, Tiiki è spesso presentato come il primo uomo, come il primo abitante umano della terra, generato da genitori divini.

Ancor oggi, in vari luoghi, l’immagine di Tiki accompagna passo passo i Maori.

A volte un Tiki scolpito in legno, in grandezza naturale, orna la porta di un villaggio.

A volte un piccolo Tiki, anch’esso di legno, informa e ammonisce che il luogo da lui custodito è tabù.

“Solitamente un heitiki è costruito in nefrite. Solo eccezionalmente i Maori lo scolpiscono in osso di balena o con un teschio umano., L’altra parte del nome di quest’oggetto, la parola hei, significa semplicemente “collo”.

I Maori portano effettivamente al collo questo loro ornamento prediletto.

Esso misura da 5 a 15 centimetri e raffigura un Tiki seduto, con la testa inclinata sulla spalla. Il suo viso è sempre espressivo e consta di un’enorme bocca, di un naso stilizzato, grosse orbite e sopraccigli fortemente rilevati.

Cos’è l’oggetto denominato heitiki?

I misteri della terra dei fiordi

“Sulla effettiva destinazione di quest’ornamento le opinioni degli scienziati che si occupano della cultura della Polinesia divergono. Per alcuni, l’heitiki è un simbolo della fecondità, per altri un’espressione del culto degli avi o un segno della fede nella rinascita. Non potrei dire quale affermazione sia più esatta o sicura.

“A quel che credo, i Maori che ancor oggi portano questo ornamento tradizionale non lo fanno per motivi di carattere religioso, ma manifestano così il loro orgoglio nazionale, l’amore per il proprio popolo e per la sua eredità culturale.

L’heitiki è oggi quasi diventato un simbolo di tutta la Nuova Zelanda.

E io mi sono portato con me questa figurina dalla terra della nefrite, dall’Isola del Sud, e la posseggo ancora. Mi dispiace soltanto che i costumi europei non consentano, a un austero scienziato di sesso maschile, di girare il mondo con un ornamento di nefrite al collo!

“Naturalmente, gli heitiki non erano l’ unico oggetto che i Maori confezionavano con la loro bella pietra verde.

Tra molte altre cose citerei volentieri la mere, cioè la mazza dei capi (una sorta di bastone di comando). “

“Gli abitanti originari della Nuova Zelanda ritenevano del resto che la nefrite fosse innanzi tutto un privilegio dei personaggi d’alto grado.

Tra i Maori vigeva questa tendenza:

“Tre cose sono necessarie all’ornamento di un capo: una mazza di nefrite, un mantello di pelle di cane e una casa scolpita”.

“In ogni caso, i Maori si rendevano conto che una cosa così bella come la nefrite non poteva essere una semplice pietra.

Di conseguenza le diedero un significato soprannaturale. In effetti, nei complicati miti dei primi neozelandesi, troviamo che la dea Te Anu Matao (sovrana del freddo e del gelo) andò sposa a Tangaloa, celebrato in tutta la Polinesia come dio del mare.

Il significato della nefrite per i maori

I misteri della terra dei fiordi

Da questo sacro matrimonio nacquero quattro figli, dei quali una è Pounamu, cioè la nefrite.” (12) Ed eccoci giunti al punto che in questa sede ci interessa: la vicenda che sta alla base del racconto semi-storico (o semi-leggendario.

Fra i Polinesiani la distinzione è meno netta che in Occidente della “Tribù Perduta” dell’Isola del Sud.

Si noti che la versione riferita da Miloslav Stingl è diversa da quella narrata da Forbis: qui non si parla di una battaglia tra due diverse tribù maori, ma della scomparsa improvvisa di un’unica tribù, la stessa che aveva stabilito il primo contatto con il capitano Cook.

(13) L’epoca, tuttavia, è chiaramente la stessa, pochi anni dopo la visita del famoso navigatore inglese. Anche se verso la metà dell’Ottocento alcuni membri della tribù sarebbero stati rivisti, per l’ultima volta.

Il dato cronologica, comunque, fa pensare chiaramente trattarsi del medesimo episodio.

Episodio giunto soltanto in due versioni diverse, ma su una base comune agevolmente definibile; in particolare, è confermato il sottofondo guerresco di quei bellicosi abitanti della Fiordland.

Anche se il racconto di Stingl è, per certi versi, più dettagliato, ci sembra possibile, per non dire probabile, che ad esso manchi proprio l’elemento iniziale, (riportato invece da Forbis).

Una guerra intertribale fra gli Hawea e i Ngatimamoa, che avrebbe spinto i primi, usciti soccombenti dalla prova delle armi, a fuggire nell’interno di quella selvaggia regione, facendo perdere volontariamente le proprie tracce. Resta il fatto che tutti i Maori della regione scomparvero, per così dire, da un giorno all’altro: vincitori e vinti.

E proprio qui sta l’aspetto più sconcertante del mistero della “Tribù Perduta”. “Prima dell’arrivo dei bianchi, risiedeva nella favolosa regione dei fiordi e nei territori circostanti la stirpe degli Ngatimamoa.

Gli abitanti dell’isola.

I misteri della terra dei fiordi

I primi Maori giunti nell’isola del Sud si chiamavano Waitaha; ma dopo vi giunsero i guerreschi Ngatimamoa e li sopraffecero. Solo pochi tra gli sconfitti furono accolti nelle stirpi dei vittoriosi.

“Nel secolo XVII una terza ondata di abitanti si trasferì qui dall’isola del Nord.

Ma anch’essi furono sopraffatti dagli Ngatimamoa. Poi approdò in uno dei fiordi di questa magnifica terra – in Dusky Sound – il capitano Cook. Ciò avvenne nel 1773.

L’esploratore inglese fu allora accolto dai Maori – evidentemente proprio gli Ngatimamoa – molto amichevolmente. “Nel 1842, alcuni cacciatori di foche videro nuovamente alcuni Ngatimamoa, in questi paraggi.

Da allora, in poco più di un secolo, nulla si è più saputo di loro. Una gente che, sebbene non sconfitta da nessuno, è, in modo del tutto incomprensibile, sparita dalla faccia della terra.

“Cercatori d’oro, boscaioli e cacciatori, diedero, in seguito, qualche notizia intorno all’esistenza di un gruppo maori, nella regione desertica del sud-ovest dell’Isola del Sud.

Presso il lago Te Anau fu rinvenuta l’orma di un piede scalzo.

Un medico neozelandese trovò tra le rocce a nord del lago l’osso di un femore umano, che doveva essere appartenuto a un uomo morto da un paio d’anni.

La sorte di questa stirpe maori, così inspiegabilmente perduta, mi aveva interessato già fin da quando ne avevo sentito parlare per la prima volta.

Alla ricerca d questi Maori svaniti nel nulla mi sono perciò arrampicato sulle pendici del Te Anau, allontanandomi da Milford Sound, per esplorare le più dimenticate insenature del Manipouri.

Naturalmente invano.

Una simile impresa richiede, in questo territorio così difficilmente accessibile, un’indagine profonda e di lungo respiro e non già qualche semplice escursione turistica.

“Questa stirpe attende fino ad oggi chi la riscoprirà.

La battaglia con i Ngatinamamoa.

Della sua esistenza fa fede il fatto che né i bianchi né altri Maori hanno sconfitto in battaglia gli Ngatimamoa: quanti dunque non sono morti naturalmente, nei deserti della terra dei fiordi, vivono forse ancora.

In qualche luogo nascosto delle foreste inaccessibili. Essi sarebbero allora l’ultimo resto di Polinesiani che – unici su queste terre – avrebbero evitato il contatto con il nuovo mondo.

Se non sono morti tutti? Nell’anno 1848  il valoroso studioso neozelandese dottor Orbell trovò, in una solitaria vallata dei Monti Murchison, altri esseri viventi che erano ritenuti estinti.  [si tratta evidentemente di un refuso per 1948; e quella di Orbell era una semplice battuta di caccia, non una spedizione scientifica.Nota nostra]

La spedizione di Orbell scoprì, non lontano dal Te Anau, strani uccelli di uno stupendo colore azzurro.

I Maori chiamano questi ritrovati ralliformi neozelandesi takahe; gli scienziati, nella storia naturale, notornis mantelli.

“Del resto la Nuova Zelanda è un paradiso per gli amici degli uccelli.

A me piace più di tutti quello chiamato kiwi, che non ha ali e che orna monete e francobolli neozelandesi.

Oltre il bruno kiwi, altre insolite specie di uccelli vivono qui.

Per esempio i pappagalli kea, di color verde oliva, i quali, contrariamente a quanto sapevo dei pappagalli, sono cruenti, aggressivi uccelli da preda.

Piombano soprattutto sulle pecore e divorano reni e intestino della loro preda ancora vivente.

“Un pacifico cugino del kea è l’uccello notturno kakapo o pappagallo-civetta, che vive esclusivamente nel selvaggio territorio dei fiordi.

Il miglior cantore della Nuova Zelanda è il kokorimoko; gli indigeni lo chiamano “l’uccello del campanellino” perché la sua voce ne ricorda il suono.

I volatili dell’isola

Un altro uccello canterino è il poepoe o “succiamele”.

Un tempo, le sue iume formavano l’ornamento principale dei manti maori. “Mi ha anche ammaliato il gabbiano delle tempeste neozelandesi.

Quest’uccello – sotto altri aspetti tutt’altro che insolito – divide la propria dimora con una strana lucertola, che i Maori chiamano tuatara, “dorso spinoso”.

Durante la notte abita nell’alloggio comune l’uccello; di giorno, invece, mentre il gabbiano delle tempeste va a caccia, è la tuatara, che cerca il proprio cibo di notte, a rientrare nella casetta comune.

“Questo piccolo drago neozelandese è d’altronde una creatura oltremodo bizzarra.

Unico tra gli esseri viventi, ha un terzo occhio.

I Maori temono molto la tuatara; la considerano una specie di vampiro o cannibale. Cook, secondo notizie raccolte dai suoi informatori locali, la definì un “drago che divora la gente”.

In realtà, la tuatara si nutre di vermi e scarabei.

La lucertola a tre occhi vive sulla terra già da più di 150 milioni di anni. Questo fossile vivente venne in Nuova Zelanda quando ancora queste isole, l’Australia e l’America del Sud formavano un’unica massa di terra.

“Il principale alimento dei cacciatori maori era tuttavia – accanto ad altri uccelli – il gigantesco moa, un uccellaccio alto spesso più d’un uomo.

Eppure, questi uccelli corridori furono alla fine completamente sterminati. Ho potuto ancora vedere scheletri completi di moa neozelandesi nelle vetrine di alcuni musei locali, a Christchurch e a Dunedin.

Entrambe queste città custodiscono nelle loro collezioni numerosi scheletri di questi uccelli giganti, con poderose ossa del petto e forti gambe fatte per camminare, che hanno piuttosto l’aria di gambe di cavalli.

Un uovo di moa al museo

Nel museo di Dunedin ho perfino trovato un uovo di moa intatto, nonché una descrizione del contenuto dello stomaco e dell’intestino di questi grossi animali. Si nutrivano esclusivamente di piante.

“Dalle ricerche archeologiche condotte nell’Isola del Sud, è risultato a poco a poco che non furono i Maori a sterminare i moa, ma un gruppo di immigrarti polinesiani giunti in Nuova Zelanda molto tempo prima dei viaggi delle note imbarcazioni provenienti da Hawaiki: addirittura al principio del nostro millennio.

La data più antica, che si è ottenuta con l’ausilio del radiocarbonio, a Wairau, corrisponde all’anno 1.125 ± 50 anni.

I cacciatori di moa, come vengono chiamati questi primi neozelandesi, predecessori dei Maori, uccidevano gli animali giganti con mazze di nefrite

. “Gli archeologi hanno già ritrovato tutta una serie d’insediamenti dei cacciatori di moa.

Accanto alle ossa degli animali uccisi e alle mazze di nefrite, vi si rinvengono quasi sempre numerosi focolari, sui quali i cacciatori arrostivano le proprie prede, ricoperte d’argilla, poggiandole su pietre roventi.

Questi primitivi abitanti della Nuova Zelanda avevano sicuramente – come anche i conquistatori di altre isole del Pacifico finora sconosciute – portati con sé dalla originaria patria tropicale tutte le piante utili più importanti.

Ma, tranne la patata dolce, nessuna altra prosperò nella fredda e umida Isola del Sud.

“Sul principio, nei luoghi di ritrovamento archeologico, si presentano molto frequentemente, insieme con le ossa di moa, orme umane. Ma poi gli scheletri degli uccelli diminuiscono e resti di nuovi alimenti li sostituiscono: pesci e molluschi.

“E infine il moa si è estinto del tutto. E insieme a lui i cacciatori di quel grande uccello. Nella storia della Nuova Zelanda un nuovo uomo appare sulla scena: il Maori.

I cacciatori di moa

I discendenti della gente venuta con le grandi piroghe.

“La scienza deve ancora stabilire quale rapporto esistesse tra quegli antichi e scomparsi cacciatori di moa e i nuovi venuti, dediti all’agricoltura. 4

I cacciatori di moa sono spariti come la stirpe degli Ngatimamoa, come sono spariti tanti altri popoli.

“È rimasto soltanto un modo di dire, una frase che i Maori ripetono spesso e contro la quale vorrei protestare e arrabbiarmi.

Una frase che è come un requiem, un grande requiem per tutte le genti sterminate ed estinte, Indiani, Melanesiani, Australiani e, purtroppo, anche questi Polinesiani.

L’alata parola dei Maori che dice:

“Questi uomini si sono estinti come i moa”.(14) Arrivati a questo punto, e dopo aver esposto i non molti fatti di cui siamo in possesso, non ci resta che tentar di avanzare alcune possibili ipotesi circa il destino di quegli indigeni che, forti e attivi al tempo di Cook, soltanto pochi anni dopo parevano essersi dissolti nel nulla.

Tra le fitte nebbie dei monti e dei boschi pluviali della Fiordland.

Le possibili ipotesi circa il destino della tribù indigena

1) La “Tribù Perduta” non è mai esistita e, quindi, non è mai scomparsa: si tratta di una leggenda puramente fantastica del folklore maori.

Contro questa ipotesi, che potremmo definire totalmente negazionista, sta il fatto che i Ngatimamoa sono effettivamente scomparsi e che, nel 1842, alcuni uomini bianchi ne videro un piccolo gruppo.

Se la loro esistenza è stata un fatto storico (e ne abbiamo le prove, in particolare dalla relazione di James Cook), allora anche la loro scomparsa deve esserlo.

E come tutti i fatti storici, non po’ essere elusa con una semplice alzata di spalle.

2) La “Tribù Perduta” si è estinta in seguito alle guerre con altre tribù maori o con gli uomini bianchi.

Questa ipotesi, che potremmo dire riduzionista, appare altrettanto insostenibile della precedente. Non abbiamo alcuna testimonianza di guerre che portarono alla distruzione dei Ngatimamoa o del sottogruppo degli Hawea.

Inoltre, sarebbe stato trovato perlomeno qualche resto archeologico: resti di capanne, sepolture, ossa, manufatti, ecc.

Anche se sterminato da vicini spietati, un gruppo umano non può scomparire nel nulla, senza lasciare ila minima traccia del proprio passaggio.

3) La “Tribù Perduta” si è estinta a causa della scomparsa dei moa e di ogni altra selvaggina.

Lontani dal mare, gli indigeni non potevano pescare o raccogliere molluschi e crostacei; e il clima freddo ed estremamente piovoso non consentiva di coltivare nemmeno la patata dolce.

Così, quando ebbero ucciso l’ultimo moa, i Maori non ebbero più nulla da mangiare e perirono di fame.

La teoria della pandemia

Si potrebbe anche pensare che furono distrutti da una qualche epidemia, cosa non rara fra i popoli delle società pre-moderne.

Contro queste ipotesi valgono, però, le stesse obiezioni che abbiamo fatto per la precedente: qualche segno del loro stanziamento avrebbe dovuto, in ogni caso, rimanere.

4) La “Tribù Perduta” è migrata, via terra o, magari, via mare, in qualche atro luogo: sulla più favorevole costa orientale dell’isola del Sud, o magari ancora più lontano, verso l’isola del Nord o verso le Isole Chatham.

Riesce però estremamente difficile ammettere questa ipotesi, sia perché è difficile pensare che un consistente gruppo umano possa migrare da un giorno all’altro senza un piano preciso.

Sia perché alcuni indigeni furono comunque avvistati casualmente, circa sessant’anni dopo la loro scomparsa, negli stessi luoghi di prima; sia infine, perché qualcosa di una eventuale migrazione sarebbe stato tramandato, come sempre in questi casi, nei racconti orali dei loro discendenti, una volta stabilitisi nelle nuove sedi.

5) La “Tribù Perduta” esiste ancora, o almeno ne sopravvivono alcuni individui.

Certo, è questa un’ipotesi assai arrischiata; però non dovrebbe essere scartata aprioristicamente come frutto di fervida immaginazione.

Noi sappiamo, ad esempio, che un minuscolo gruppo di indiani Yahi della California, braccati a morte dall’uomo bianco nella seconda metà dell’Ottocento, riuscirono ad occultarsi nella boscaglia per molti decenni.

Finché il loro ultimo rappresentante, chiamato Ishi, si consegnò spontaneamente agli abitanti di Oroville, nel 1911. (15) Accolto benevolmente e studiato da alcuni etnologi come “l’ultimo uomo dell’età della pietra” in pieno XX secolo, sopravvisse altri cinque anni prima di morire, nel 1916.

(16) Un caso ancor più spettacolare, sia per il numero delle persone coinvolte che per la data assai più recente, è stato, nel 1975, quello della scoperta dei Tasaday.

La tribù dell’isola Mindanao

Una piccolissima tribù dell’isola di Mindanao, nelle Filippine, che viveva in grotte e conduceva un’esistenza totalmente “primitiva”. (17)

6) La “Tribù Perduta”, o quanto di esso sopravviveva, è stata al centro di un clamoroso caso di ciò che i parapsicologi definiscono asporto o, se si preferisce, è stata “risucchiata” – per così dire – in un’altra dimensione spazio-temporale.

Siamo perfettamente consapevoli ella stranezza, anzi dell’assoluta bizzaria di questa ipotesi; però il lettore, prima di escluderla senza ulteriore approfondimento.

Tenga presente che i due fenomeni dell’apporto e dell’asporto, ben noti nel caso di oggetti, in alcuni casi documentati hanno coinvolto anche esseri umani.

Nel 1593, a Città del Messico, comparve un soldato spagnolo della guarnigione di Manila, distante migliaia di chilometri.

L’uomo non sapeva spiegare come fosse giunto lì, ma le notizie di cui era latore (la morte violenta del governatore delle Filippine) vennero confermate da un veliero giunto due mesi dopo.(18)

Viceversa, un agricoltore americano di nome David Lang, il 23 settembre 1880, scomparve letteralmente proprio davanti a casa sua, sotto gli occhi di cinque testimoni, tra i quali la moglie, a Gallatin, nel Tennesse.

Sua figlia, giorni dopo, ne udì ancora la flebile voce, poi più nulla. (19) Il fatto destò un tale scalpore che il famoso scrittore Ambrose Bierce ne trasse ispirazione per uno dei suoi racconti del terrore, intitolandolo La difficoltà di attraversare un campo..(20)

Per quanto riguarda la scomparsa di interi gruppi, il caso certamente più sconvolgente sarebbe (il condizionale è d’obbligo) quello del reggimento inglese (più di 1.000 uomini) “scomparso” in una specie di nuvola bassa.

Il 28 agosto 1915, nella Penisola di Gallipoli, durante un’azione contro le postazioni turche; e i cui membri non vennero mai più ritrovati, né vivi né morti.

La strana nube avvistata dai soldati

“La fonte di questa notizia è stata una testimonianza, resa pubblica 50 anni dopo l’incidente, di tre soldati neozelandesi.

I soldati  dichiararono di aver osservato una densa nube, di aspetto solido e a forma di fetta di pane, abbassarsi fino al suolo, sul cammino di una colonna di truppe in avanzata.

Dopo che gli uomini vi furono dentro, la nube si alzò, lasciando il terreno deserto.” (21)

7) Tralasciamo volutamente ipotesi ufologiche o, in genere, di stampo extraterrestre, non perché siano del tutto impensabili, ma perché manca, in questo caso, il minimo indizio che porti in una tale direzione ( avvistamenti di oggetti volanti sconosciuti, segni sul terreno, ecc.).

Come del resto è logico, dato il tempo e il luogo della vicenda.

Ma non avrebbe senso dilungarsi su un tipo di ipotesi che prescindono totalmente da ogni e qualsiasi sforzo di spiegazione “normale” (o, al limite, paranormale), per compiere un puro e semplice salto nel buio.

Che altro dire?

La storia della “Tribù Perduta” non è la prima né l’ultima nel suo genere, per quanto il grande pubblico ignori che si tratta di fenomeni relativamente frequenti.

Certo, per molti di essi è possibile una spiegazione semplice e razionale, come per la già citata scomparsa dell’armata persiana di Cambise, in Egitto, di cui parla il “padre della storia”, Erodoto.

Le persone scompaiono, dopo tutto, ogni giorno; e le cause possono essere le più svariate.

Solo in piccola parte si tratta di scomparse misteriose; ma quella piccola percentuale esiste, e non è suscettibile di essere liquidata con superficiale leggerezza.

La scomparsa di un intero gruppo umano, al contrario, è un evento certamente raro ed anomalo, che sfida oltre ogni limite le nostre capacità di spiegazione razionale e verosimile.

Come porsi di forse al mistero?

Parlando in generale, ci sembra che esistano essenzialmente due maniere di porsi di fronte al mistero.

La prima è quello di considerarlo un muro che ci sbarra la strada, cioè un ostacolo imprevisto e insopportabile, che va abbattuto, scalato o aggirato, insomma piegato ai nostri voleri – per meglio dire, ai voleri della ragione calcolante.

La seconda maniera è quella di vedere in esso uno stimolo e, al limite, una finestra: una finestra spalancata su qualcos’altro, qualche cosa di alieno.

n questo caso, la ragione non si sente sfidata né umiliata, bensì sollecitata a fare spazio ad un modo di vedere la realtà che non escluda altre forme e possibilità di comprensione.

A fare un atto di doverosa umiltà e a riconoscere – come dice Shakespeare nell’Amleto – che “vi sono più cose fra cielo e terra di quante possa sognarne tutta la nostra filosofia”.

NOTE

1) ERODOTO, III, 25-26; LIGABUE, Giancarlo (a cura di), L’armata scomparsa di re Cambise, Venezia, Erizzo Editrice, 1990; Id., Sono questi i resti dell’armata di Cambise, su Atlante, dic. 1984, pp. 36-45.

2) LAMENDOLA, Francesco, La bambina dei sogni e altri racconti, Poggibonsi, Lalli Editore, 1984.

3) LAMENDOLA, Francesco, La navigazione antartica di Hui-Te-Rangi-Ora. Una epopea polinesiana sulla rotta del Polo Sud, su Il Polo, riv. dell’Ist. Geogr. Polare fondato da Silvio Zavatti, Fermo, vol. 2, giu. 1988, pp. 12-35.

4) CORNA PELLEGRINI, Giacomo-RAITERI, Silvio, Nuova Zelanda, Milano, Touring Club Italiano, 1990, pp. 189, 145.

5) LEWIS, David-FORMAN, Werner, I Maori, un popolo di guerrieri, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983, p. 24.

6) Cfr. le bellissime fotografie della flora scattate dalla spedizione scientifica del prof. Pichi-Sermolli, in MONTALENTI-Giuseppe-GIACOMINI, Valerio, Corso di biologia per le scuole medie superiori, Firenze, Sansoni 1970, p. 315; e BIASUTTI, Il paesaggio terrestre, Torino, U.T.E.T., 1962, tav. 13 f. t. (fra p. 368 e p. 369).

7) Cfr. BIASUTTI, Renato, Op. cit., pp. 371-375.

8) Cfr. LAMENDOLA, Francesco, La scoperta antartica di Hui-Te-Rangi-Ora, cit., p. 31, nota 8. Le spedizioni di pesca dei Maori alle isole Auckland cessarono del tutto solo nel XIX secolo, quando questo popolo, divenuto sedentario, dimenticò per sempre le tradizionali conoscenze e abilità, che ne avevano fatto uno dei più arditi al mondo nel campo dei viaggi marittimi.

9) FORBIS, John, Un paese che resiste alla sfida dell’uomo, in Selezione dal “Reader’s Digest”, settembre 1972, pp. 147-152.

10) Cfr. LAMENDOLA, Francesco, Terra Australis Incognita, su Il Polo, vol. 3, 1989, pp. 51-58; Id., Mendana de Neira alla scoperta della Terra Australe, su Il Polo, vol. 1, 1990, pp. 19-24; Id., Alla ricerca della Terra Australe, su Kur, period. dell’Ass. “La Venta, Treviso, 2007.

11) FORBIS, John, cit., p. 152.

12) STINGL, Miloslav, L’ultimo paradiso. Misteri e incanti della Polinesia, Milano, Mursia, 1986, pp.225-226.

13) ZAVATTI, Silvio, I viaggi del capitano James Cook, Milano, Schwarz, 1960, pp. 101-109.

14) STINGL, Miloslav, cit., pp. 225-228.

15) DOPLICHER, Mario, Come l’uomo scopre il suo mondo, Milano, Soc. Editrice Vie Nuove, 1973, pp. 19-24.

16) KROEBER, Theodora, Ishi, un uomo tra due mondi. La storia dell’ultimo indiano Yahi, Milano, Jaca Book, 1985.

17) HILL, L. G.- LITT, B., I Tasaday, in I popoli della Terra, vol. 9: Indonesia e Filippine, Milano, Mondadori, 1981, pp. 38-49.

18) WILSON, Colin, Realtà inesplicabili, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 29-31.

19) BOAR, Roger-BLUNDELL, Nigel, Fantasmi, Milano, Fabbri Editori, 1998.

20) BIERCE, AMBROSE, Tutti i racconti dell’orrore, Roma, Newton Compton Editori, 1994.

21) BEGG, Paul, Into Thin Air, The Unexplained Mysteries of Mind Space and Time, vol. 3; WILSON, Colin, Op. cit., pp. 26-28. Articolo scritto da Francesco Lamendola

I misteri della terra dei fiordi articolo scritto da Francesco Lamendola.

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La scoperta delle Berjosty a Novgorod

La scoperta delle Berjosty

Articoli di Aldo C. Marturano

UN EVENTO MEDIEVALE EPOCALE DEL SECOLO SCORSO: La scoperta delle BERJOSTY

Articolo dedicato ad un grande archeologo e storico russo contemporaneo: Valentin Lavrent’evic’ JANIN

Quando il prof. A. V. Arcihovskii trovò le prime berjòsty nei suoi scavi a Novgorod nell’estate (è l’unica stagione buona per il lavoro di scavo qui nel Grande Nord) del 1951 (26 luglio) probabilmente non ne rimase molto sorpreso.

Poiché qui e là nelle zone archeologiche dove lavoravano gli altri colleghi delle università statali nell’ex URSS di tali reperti se ne trovavano ogni tanto.

E’ vero che, quando lo scritto non era visibile o riconoscibile, gli archeologi li avevano presi per “galleggianti per la pesca”.

Ma ora il fatto eccezionale fu che con il proseguire degli scavi in pochi mesi di campagna il numero dei reperti salì a varie centinaia!

Fino ad oggi (anno 2000) di berjòsty ne sono state catalogate circa un migliaio in questa zona di scavi.

Ma restano ca. 20.000 di reperti simili da mettere ancora in ordine e da decifrare!

Che cosa sono le berjòsty (il singolare è berjòsta in russo)?

E’ presto detto! Sono delle strisce oblunghe (da 25 cm fino a 40 cm e oltre) di scorza di betulla di larghezza tipica standard fra i 4 e gli 8 cm. Sulla cui faccia interna mediante uno stiletto appuntito d’osso o di metallo o di legno (pisàlo in russo) si incidono agevolmente le lettere.

Le strisce, per essere così scritte, devono essere preparate immergendole o bollendole in acqua calda per dare loro una maggiore elasticità.

A questo punto la striscia inverte la sua proprietà di avvolgersi su se stessa e lo scritto sulla berjòsta arrotolata risulterà ora sulla faccia esterna.

Subito dopo l’incisione i solchi infatti imbruniscono e la scrittura è subito leggibile e, se poi le condizioni lo permettono, ecco che queste lettere sui generis riescono a conservarsi per secoli per essere scoperte poi dagli archeologi.

Niente di eccezionale, a quanto pare e niente di nuovo come reperto, visto che se ne trovano non solo in Europa, ma anche in Nordamerica e abbastanza spesso persino nel nord dell’Asia.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Si può aggiungere che tale tipo di supporto grafico è peculiare del nord ed è ben conosciuto dall’antichità fino ad oggi in tutto l’emisfero boreale dove cresce e vive la Betulla.

Presente con varie decine di specie nelle foreste, quest’albero offre con la sua corteccia bianca e liscia che facilmente si stacca dal tronco un ottimo foglio per scrivere.

Questa però è una nota di poco valore e quel che è invece importante per lo storico è il fatto che le berjòsty siano state trovate in così gran numero in città tutte vicine.

Città comprese nel grande territorio più settentrionale che una volta era parte dello stato della Rus’ di Kiev.

Ad esempio nella città di Rusa (riva sud del lago Ilmen, il lago immediatamente a sud di Novgorod) le berjòsty ritrovate sono 32.

A Pskov (non lontano da Novgorod, ad occidente) 8, nell’area di Smolensk negli scavi della vicina Gnjòzdovo se ne sono trovate una decina. Una risulta trovata a Vitebsk nella città natale di Marc Chagall in Bielorussia e un’altra nella lontana Mosca.

Fa perciò meraviglia che mai negli scavi fatti fino ad ora ne siano state trovate tante come a Novgorod!

Ci sorge spontanea la domanda: Qual è la ragione per spiegare tutti questi scritti in così gran numero in una sola città?

La risposta non è semplice.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Le berjòsty prodotte in un intervallo di tempo così ristretto (!) non possono che suggerirci una cosa: a Novgorod l’alfabetizzazione dei cittadini era molto diffusa (al contrario di quanto si credeva anni fa).

Ciò vuol forse dire che le scuole delle chiese dei “cantoni” novgorodesi esistevano e funzionavano a pieno ritmo. E che siano state alla portata di tutti, senza distinzione di classe o strato sociale?

Malgrado ogni sforzo immaginativo, non esiste prova che l’istruzione venisse impartita in scuole organizzate né a Kiev e neppure nella colta Novgorod.

Anzi più probabile che solo le classi più abbienti si potessero permettere di far venire i monaci in casa per insegnare ai propri rampolli a leggere, a scrivere e a far di conto.

Che la scrittura subito dopo la sua antichissima invenzione dovesse diventare il mezzo di comunicazione di massa più diffuso fra gli uomini, nessuno se lo sarebbe aspettato in periodo medievale. Anzi!

Dalle stesse fonti rappresentate dalle Vite dei Santi Russi (i primi santi russi furono di solito di famiglia principesca o nobile, con encomiabili eccezioni come il grande san Teodosio delle Grotte) si può dedurre che la Chiesa, com’è naturale, avesse il monopolio esclusivo dell’alfabetizzazione.

Sebbene l’istruzione passata dai Monasteri a colui che era destinato alla carriera ecclesiastica fosse tutt’altra di quella impartita ai “laici”.

Insegnamento della scrittura.

L’insegnamento della scrittura dunque veniva conservata gelosamente come attività riservata ai preti locali, custodi delle Sacre Scritture.

Ossia dell’unica fonte delle conoscenze del tempo, affinché nessuno se ne appropriasse indebitamente (in altre parole per impiegarla in cerimonie pagane).

Già è immaginabile nelle culture contadine europee appena evangelizzate la meraviglia che suscitava il sentire raccontare ad alta voce le stesse storie. Storie raccontate con le stesse ed eguali parole nelle nuove chiese soltanto scorrendo con il dito lungo questi strani segni misteriosi.

Ciò era in contrasto con le esercitazioni mentali che invece occorreva fare per ricordare a memoria i fatti e gli eventi della propria famiglia e del proprio clan senza troppe variazioni di testo con le vecchie tecniche mnemoniche cantilenate del nord.

Così, quando il Cristianesimo penetrò e si affermò come religione dello stato nelle Terre Russe, tutti i bambini – con preferenza nelle città dei figli delle famiglie più abbienti – cominciarono a frequentare le chiese. Solo chiese dove si insegnava, se non a scrivere, almeno a leggere e a cantare gli inni al nuovo dio cristiano.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Le Cronache russe a questo proposito, parlando di Vladimiro il Santo quando introdusse il Cristianesimo a Kiev e a Novgorod.

Ci informano che mandò a studiare tutti i figli dei nobili affinché imparassero la nuova disciplina.

Questa “imposizione dall’alto” fece tale impressione nelle famiglie che le madri piangevano e davano i loro figli per ormai morti.

Le madri temevano che i ragazzi andassero ad imparare la magia nera, più che la conoscenza attraverso la scrittura.

D’altro canto è incontrovertibile che molte berjòsty siano di provenienza “popolare”.

Quindi dobbiamo ipotizzare che anche le classi più “basse” (almeno quelle novgorodesi) dovessero essere largamente alfabetizzate e questo ci dà un quadro di un’alta civiltà, eccezionale per il primo stato russo della storia.

Dalle analisi fatte con le strumentazioni e i metodi d’indagine più moderni la maggioranza di questi scritti è databile intorno al XIII sec. d.C. ossia agli anni del grande successo internazionale di Novgorod-la-Grande

Conseguentemente dobbiamo vedere le berjòsty come un segno di questo fiorire della città.

Salvo poi a constatare che questo particolare supporto per lo scritto, proprio intorno al XIV, comincia a scomparire man mano sostituita dalla carta importata dall’occidente europeo e con le comunicazioni private che vanno cambiando.

L’importanza della scoperta

A parte quanto detto sopra, l’importanza della scoperta delle berjòsty è una novità che finora è stata trascurata dalla storiografia occidentale.

E’ vero che oggi Novgorod-la-Grande è un capoluogo di provincia nel grande nord russo a qualche centinaia di km da San Pietroburgo, di poca importanza economica e politica nell’odierna Federazione Russa. Sebbene sia considerata la più brillante città-museo russa protetta dall’UNESCO.

E’ vero che non è da confondersi con la molto più grande Novgorod-di-sotto ossia Nizhnii Novgorod sul Volga.

Ma è altrettanto vero che nel Medioevo il Grande Nord Russo rappresentò la più importante risorsa di materie prime e tecnologica per tutto il continente europeo e che il centro culturale e economico di questo immenso territorio da sfruttare era proprio Novgorod-la-Grande.

Purtroppo nella storiografia occidentale, la limitatissima conoscenza di questa regione d’Europa (anche da parte dei contemporanei del lontano Medioevo) ha permesso che si diffondesse la concezione che da questo oscuro e lontano nord venissero solo materie prime di secondaria importanza.

Questo modo di vedere però è ormai in disuso.

Da quando gli scavi fatti a Novgorod hanno dato le prove lampanti che l’artigianato locale era di altissima qualità e che veniva esportato in tutto il mondo mediterraneo, se non anche più lontano.

I traffici di questa città infatti giungevano fino in Cina attraverso le strade fluviali oltre il Caspio e con le carovane. Lungo le vie meridionali asiatiche giungevano nell’India o attraverso quelle settentrionali toccavano la Mongolia.

Novgorod tuttavia era collegata preferibilmente con tutto il nord d’Europa e con i mercati lungo il Reno.

E quando nacque l’Hansa, pur non diventando mai una città anseatica, fu la base di produzione più importante del Mare del Nord e del Baltico (un Kontoor).

Novgorod conserva bene ancora oggi il piano medievale del XV sec. insieme con i suoi vecchi monumenti, le tante chiese, ma?

E’è solo una “brutta copia” di quella che fu la splendente città-repubblica a pianta circolare divisa dal fiume Volhov in due metà separate, chiamate rispettivamente: quella sulla riva destra, Riva del Mercato, e quella sulla sinistra, Riva di Santa Sofia.

La Riva del Mercato

La Riva del Mercato – così chiamata perché aveva appunto una Piazza del Mercato – era in maggioranza abitata da artigiani e operai indipendenti.

Mentre quella opposta era abitata dall’élite e cioè dai bojari latifondisti e dal potentissimo Arcivescovo novgorodese.

Le due “metà” erano unite dal cosiddetto Ponte Grande o Ponte Vecchio e ciascuna era circondata da una cinta di mura esterna con torri e bastioni per la difesa, al principio fatte di legno ma poi anche di mattoni.

La Riva di Santa Sofia poi aveva al suo interno un’altra cinta di mura con fossato che racchiudeva la Cattedrale appunto dedicata a Santa Sofia e l’Arcivescovado.

La Cattedrale caratterisctica con la sua sala detta delle Cento Colonne dove si riuniva quasi in segreto il governo ristretto della città. (Ovvero i Gospodà ossia i rappresentanti più potenti e autorevoli delle 300 famiglie bojàre più o meno imparentate fra di loro).

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Qui al tempo della fondazione della città nel IX sec. d.C. si trovava il grande Deposito di Merci chiLa scoperta delle Berjosty a Novgorodamato Detìnez.

I cuori della città erano dunque la Cattedrale da una parte e la Piazza del Mercato dall’altra e Novgorod al momento del suo massimo splendore forse raggiunse i 60-70 mila abitanti e tutte queste persone? si scrivevano!

Brevi note, contratti, sentenze giudiziarie, lamentele, soltanto saluti, addirittura anche i ragazzi che avevano appena imparato a scrivere hanno lasciato le loro berjòsty!

E, meraviglia delle meraviglie, il primo documento scritto in lingua carelo-finnica è proprio il breve testo di una berjòsta (ricordiamo che la parte finnica della popolazione novgorodese era detta “ciuda” sebbene comprendesse varie etnie affini)!

L’interesse storico per questi documenti è dunque enorme?

Non possiamo qui tracciare la storia di Novgorod, ma abbiamo il dovere di metter in chiaro alcuni punti sul suo ruolo paneuropeo.

La città aveva un regime assolutamente repubblicano e cioè si governava (al di là della partecipazione suppletiva a tale governo di un principe mandato da Kiev) attraverso la sua assemblea popolare chiamata Vece.

Questa assemblea suprema si formava attraverso i deputati scelti nelle assemblee dei “cantoni” della città partecipate, queste sì, da tutti i residenti liberi e si riuniva davanti alla Chiesa di san Nicola sulla Riva del Mercato.

Chi voleva poteva assistere plaudendo o gridando contro dall’esterno, a seconda dell’andamento della discussione.

Questa organizzazione permise a Novgorod che i suoi traffici non dipendessero dai bisogni e dalle politiche della Rus’ di Kiev e dei suoi principi.

Perciò possiamo dire che le corti europee, sorte con l’affermazione politica dei Germani e degli Arabi, compravano di qui tutti quei prodotti forestali provenienti dal ricchissimo hinterland.

Prodotti che non erano ormai più disponibili in qualità e quantità in altri luoghi d’Europa.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Di qui partivano tonnellate e tonnellate di cera bianchissima per illuminare il buio della notte nelle ricche case borghesi o nelle grandi cattedrali gotiche o per le tecniche del bronzo.

Il miele che addolciva tutte le tavole dei nobili, l’avorio delle zanne di tricheco, i preziosissimi schiavi giovani di cui persino il Palazzo del Laterano del Papa di Roma ne aveva in gran numero.

E last but not least, le pellicce costosissime di zibellino, vaio, marmotta etc. con le quali i re, i cardinali, i nobili adornavano gli orli dei loro mantelli o dei loro abiti fatti di lino di Novgorod.

E non solo!

Le sue ricchezze e il suo artigianato erano famosi per la loro squisita fattura.

Non è, a nostro avviso, azzardato dire che gran parte dello sviluppo civile europeo durante il Medioevo dipese proprio dalle potenzialità di questa repubblica nordica e russa e dalle sue decisioni commerciali e politiche.

L’importanza di Novgorod

Novgorod diventò talmente importante che persino il Papato si sforzò di tentarne la conquista.

Infatti i Cavalieri Teutonici di stanza a Marienburg (oggi in Polonia) e i loro analoghi Livonici di stanza a Riga in Lettonia, quando si accorsero di essere capitati proprio nelle vicinanze delle forniture novgorodesi, tentarono in tutti i modi di conquistarla.

Tentarono di coinvolgere i re danesi, svedesi e quelli della Polonia-Lituania contro la città.

Anche i tataro-mongoli di Cinghiz Khan cercarono di sottometterla.

Ma tutti fallirono e la città, malgrado gli sforzi dei regni vicini ostili, restò una repubblica indipendente fino al 1478.

Le berjosty ci confermano tutto questo e ci suggeriscono un quadro della vita cittadina d’ogni giorno molto particolare.

Ci si alza con le prime luci dell’alba e ci si mette subito a lavorare.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Le donne sono affaccendate con i servizi soliti di casa o con la tessitura e il ricamo e gli uomini con legno argento pelli etc. si danno da fare per tirar fuori oggetti e suppellettili di squisita fattura che talvolta richiedono persino settimane di duro lavoro.

Il bojaro padrone e signore di tutta questa gente invece, dopo aver fatto un giro nell’usad’ba per controllare a che punto sono le ordinazioni che ha passato ai suoi uomini.

Va presto a pregare e a consigliarsi col suo pope nella chiesa da lui costruita e che serve non solo come luogo di preghiera, ma anche come futura tomba e come cassaforte per le cose più preziose.

Successivamente incontrerà alla Riva del Mercato i suoi clienti stranieri per accordarsi su prezzi e consegne oppure, attaccati i cavallini alla slitta.

Si farà portare nei suoi terreni fuori città per controllare come stanno andando le raccolte e le coltivazioni.

Ad una certa ora del giorno ci sarà una refezione nell’usad’ba, tutti insieme, e poi una siesta pomeridiana.

Il lavoro però deve riprendere al più presto anche perché d’inverno il giorno è molto corto alle latitudini di Novgorod e il bojaro non gradisce che si consumino candele per illuminare il lavoro.

Perché la cera pulita e filtrata si vende a prezzi altissimi in Europa ed è inutile consumarla in casa, salvo che non ci sia una festa o una cerimonia particolare!

Purtroppo la città costruita immediatamente all’uscita del Volhov dal lago Ilmen (è l’unico emissario) doveva subire i capricci del clima.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Quando il lago gelava per molto tempo ecco che a primavera tutto il ghiaccio sciogliendosi causava delle inondazioni devastanti.

Tuttavia dobbiamo entrare nella mentalità della gente del tempo che ancora serbava le credenze e le superstizioni del vecchio paganesimo slavo per capire che le inondazioni erano considerate come una mattana causata dalle ire del Signore del Lago.

Ire scagliate contro i novgorodesi che certamente avevano trasgredito in qualche modo alle regole di reverenza che si dovevano agli dèi più potenti.

Dunque le inondazioni (periodiche o quasi) una volta scatenatesi, si attendeva che fluissero via e, malgrado le devastazioni e le vittime, si tornava alle vecchie case.

Non si liberava tutto dal fango argilloso poiché si credeva che gli oggetti ormai inghiottiti erano ritornati alla dea Madre Umida Terra che dapprima li aveva donato agli uomini ed ora se li era ripresi.

Si procedeva quindi, ove necessario, ad una nuova ricopertura delle strade con tronchi di legno nel modo speciale che solo gli Slavi sapevano fare e la vita riprendeva.

Il fuoco.

Altra tragedia era il fuoco e anche qui entrava la visione religioso-magica del mondo, quando il fuoco distruggeva mezza città. Certo! La città godeva di tutti i servizi più moderni del tempo come ospedali ed altro.

Ma per gli incendi era stato perfino istituito un servizio di prevenzione per ogni cantone.

E tuttavia quando le fiamme avvolgevano le case nessuno andava a spegnerle perché il Fuoco era ancora sentito come il dio pagano sacro e potente e purificante e nessuno avrebbe mai osato offenderlo versandogli acqua addosso.

Ecco questi forse sono i motivi perché le berjòsty si sono conservate nel fango senza essere mai state recuperate dagli stessi contemporanei per servire ancora come archivio personale o famigliare!

Certamente presso i complessi industriali (le usad’by) dei bojari novgorodesi si nota una concentrazione degli scritti su corteccia di betulla più che presso le officine artigianali “dei liberi”.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Molte di esse definiscono un impegno scritto quasi che, per paura di essere fraintesi, sia indispensabile fissare tutto sullo scritto.

Ciò risponde al tipico atteggiamento “capitalistico” novgorodese nei confronti della ricchezza e del suo uso immediato e pratico verso chi ricco non è e cioè: Non c’è bisogno di saper far tutto, ma basta solo avere il denaro per “noleggiare” chi sa fare quello che noi non sappiamo fare.

Questo è l’uso utilitaristico dello scritto che riusciamo subito a riconoscere.

Se poi ci chiediamo come mai ci fosse questo fitto scambio di “SMS ante litteram” in quel lontano periodo, una risposta esauriente non c’è.

Poiché il tenore degli scritti è vario non essendo questi sempre dei documenti ufficiali, ma scritture prevalentemente private.

In generale le lettere provengono da tutti gli strati della società novgorodese e, come abbiamo già detto, parlano di tantissime cose e vicende. Vicende che spaziano dalle più banali alle più importanti per la vita privata e pubblica dei cittadini di quel tempo in quell’angolo lontano e importante d’Europa.

La storia di Novgorod.

Perciò per la storia di Novgorod medievale oggi è l’inverso:

Con una certa ampiezza possiamo da queste lettere capire il perché e il come di questa città, della sua esistenza e del suo fiorire? entrando in casa della sua gente fin nei loro cuori!

E’ logico anche, sebbene libri mastri o registri non ne siano stati ancora trovati.

Che in una città che aveva un giro d’affari enorme durante tutto l’anno sorgesse la necessità di tenere i conti, di fare gli elenchi delle cose da vendere e da comprare, dei pagamenti, dei contatti da prendere e da mantenere etc.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Il lavoro era infatti organizzato attraverso le commesse che i bojari passavano agli artigiani.

Costoro però erano parte dell’usad’ba bojara e cioè del complesso abitativo e produttivo di ogni famiglia bojara.

Qui gli artigiani con famiglia e aiutanti abitavano e venivano mantenuti vita natural durante legati al loro “padrone” proprio dal lavoro che svolgevano.

Altri, ma numerosi, artigiani però erano liberi sia perché il loro lavoro era troppo difficile e specializzato o sporco o ingombrante, sia perché erano riusciti ad emanciparsi dalla dipendenza da una famiglia bojara per vari motivi e dunque avevano piccole case-officina proprie in varie vie della città.

Questa situazione implicava dunque una specie di segregazione per i lavoranti artigiani delle usad’by dal resto della vita della città che però probabilmente subiva un’interruzione quando giungeva la bella stagione.

E si poteva andare al seguito dei padroni nelle sconfinate proprietà terriere dell’entroterra novgorodese per aiutare a raccogliere prodotti della foresta o attendere ad altri lavori agricoli (limitatissimi a causa del clima).

Come l’estrazione del sale dall’acqua salata o per seccare il pesce o per abbattere alberi e controllare le trappole per gli animali da pelliccia etc.

L’interpretazione nel modo giusto degli eventi.

L’importanza per lo storico nella lettura delle berjòsty però è pure un’altra e consiste nel fatto che, quando si raccontano degli eventi del passato, ci si imbatte nell’impossibilità e nell’incertezza di interpretare quegli eventi nel modo giusto.Se non si conoscono bene le intenzioni, l’indole, l’atteggiamento e le aspettative dei protagonisti.

La storia medievale che noi raccontiamo oggi purtroppo è la storia di coloro che stavano in cima alla scala sociale e di coloro che li sostentavano con lavoro, forniture e aiuti materiali al contrario sappiamo pochissimo.

Come costoro vivessero dobbiamo dedurlo invece, sempre con un ampio grado d’incertezza e in modo obliquo e indiretto, estrapolando dai documenti scritti per le élites al potere di cui disponiamo.

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Perciò dare un giudizio netto sul patto sociale esistente fra le classi presenti nella repubblica che possa essere tratto dai contenuti delle berjòsty non è consigliabile e dobbiamo accontentarci di congetture.

Domandandoci tutt’al più perché mai esistesse questa forte spinta a scrivere sulle cose più disparate invece di parlarne a casa o al mercato.

Si possono considerare queste lettere come una parte della letteratura russa?

Forse sì, almeno dal punto di vista filologico per la ricostruzione della lingua grande russa di cui il novgorodese è un dialetto settentrionale.

Ma a parte la tradizione delle byline (racconti popolari di imprese passate) locali, non abbiamo prove di altra grande produzione letteraria, salvo quella ecclesiastica delle Cronache novgorodesi e delle traduzioni di scritti “edificanti” (su imitazione greco-bizantina) prodotte nei monasteri locali con grande dovizia. Al contrario di altri centri russi contemporanei.

Anzi, dobbiamo aggiungere per onor di cronaca che, se fino a qualche anno fa si è considerato il Vangelo di Ostromir scritto in paleo-bulgaro o slavone ecclesiastico il più antico documento scritto in questa lingua antenata del russo e del bulgaro moderni.

Con la scoperta del 13 luglio del 2000 di un paio di pagine dei Salmi scritti su un cosiddetto trittico tavolette incerate di legno (chiamate cery in russo, da scrivere con lo stiletto).

Queste all’analisi dendrocronologica risultano risalire fra la fine del X e i primi anni del XI sec. d.C. 50 anni prima dunque del Vangelo sopradetto!

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

E vediamo di dare un’antologia di qualcuna fra le più curiose (già tradotte e adattate da noi).

N° 46 – Non-so l’ha scritto, Non-penso l’ha fatto vedere, e chi l’ha letto? In questa b. quasi certamente si accusa qualcuno di aver scritto cose incomprensibili.

N° 199 – Sono un animale selvaggio. Saluti da Onfim a Danilo. In questa b. scrive un bambino a nome Onfim (Eutimio?) che va ancora a scuola poiché vi ha ricopiato l’alfabeto e poi ha disegnato con tratti infantili se stesso a cavallo.

N° 3 – Tante buone parole (saluti) da Josif (Giuseppe) al fratello Fomà (Tommaso). Non dimenticare di tener d’occhio Lev (Leone) per la segala. Glielo ha già detto Rodivan Podinoghin. Per il resto tutto bene. Tu però ricordati (della segala).

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

E’ un avviso abbastanza preoccupato affinché la segale sia mietuta e non vada a male, dato il clima rigido di Novgorod!

N° 64 – Saluti da Horitanija a Sofija.Che ne è stato delle mie tre misure di panno a Mihail? Dovrebbe averle consegnate! Anzi! Signora, la incarico di dirgli che deve anche consegnare il pesce sia quello fresco che quello salato. Ti bacio. Ecco come si vede anche le donne erano occupate con servitori troppo lenti o oziosi.

N° 439 – Da ? a Spirko. Se Matei (Matteo) non è venuto ritirare la grossa misura di cera, allora mandamela con Prus. Ho già venduto il piombo e lo stagno e i lavori di metallo. Non dovrò più recarmi a Suzdal (nel sud). Tre grosse misure di cera sono state comprate. Dovresti venire tu qui.

Gli ordini di compravendita

Portami perciò 4 misure piccole di stagno e due di rame in foglia e paga tutto pronta cassa. Questi sono veri e propri ordini di compravendita!

N° 2 – Saluti da Pjotr (Pietro ) a Marija (Maria). Il prato l’ho rasato, ma gli uomini da Ozery mi ha portato via il fieno. Ti prego di farmi una copia scritta del contratto e di mandarmela qui. Se poi la spedisci altrove, fammi sapere dove. Ci sono problemi!!!

N° 154 (danneggiata) – Da Nosko a Mestjata.

Il tipo venuta dall’altra sponda del lago (Ilmen?) e Hodutinic’ di Suzdal l’anno scorso hanno rifatto il tetto. Prenditi 2 grivne per nostro conto. Estinguiamo i debiti e le pendenze!

N° 163 – Saluti da Demjan (Damiano) a D? Vendi pure il cavallo per il prezzo migliore che riesci a spuntare. Ricordati però di tener in conto che quello che perdi è sotto tua responsabilità. Intanto dì a Kuseko di non perdere le kune (il denaro). E’ inaffidabile. Si vede che la vendita è stata fatta fuori tempo e bisogna correre ai ripari!

N° 246 – Da Scirovit a Stojan. Da quando ti sei preso da me la croce e non mi hai mandato il corrispettivo in denaro sono già passati 9 anni. Se non mi mandi le 4 grivne e mezza che mi devo, ti farò proclamare il migliore dei novgorodesi. Perciò mandami il denaro senza rancore. Si coglie l’ironia?

N° 235 – Da Sudiscia a Nascir. Sciadok mi ha mandato due agenti esecutori e questi mi hanno saccheggiato la casa per il debito del fratello?

Ecco che anche qui si procede ad esecuzioni forzate!

N° 415 – Saluti da Fovronija a Felice e con tante lacrime. Il mio figliastro me le ha date di santa ragione e poi mi ha cacciato dalla casa di campagna. Mi raccomandi di andare in città? O vieni tu stesso qui? Sono davvero in fin di vita! Succede anche questo!

N° 749 – Saluti da Ivan (Giovanni) a Lentija. Quello che io detto davanti a voi è vero e ti puoi fidare. Sei mio fratello, che ti serve ancora? Quel che succederà, non deve darti timori, ci sono qua io per te. Per il resto della mia vita mi preoccuperò sempre del tuo stare bene. Ecco un esempio di vero affetto!

N° 377 – Da Mikita (Niceta) a Uljaniza (Giulietta). Vieni da me. Io ti voglio e tu anche. E anche Ignazio lo sa. E’ un appuntamento amoroso?

N° 10 – C’è un castello fra cielo e terra e qui arrivò un messaggero senza strada e portò con sé per voi una notizia non scritta. E’ un indovinello. Chi lo risolve? Comunque: il castello è l’Arca di Noè, il messaggero è la Colomba e la notizia non scritta è il ramo d’olivo!

N° 43 – Da Boris a Nastasija. Quando riceverai questa lettera, mandami subito qualcuno con il cavallo perché io qui ho molto da fare. E mandami la biancheria intima perché io ho dimenticato di portarla con me. Un marito un po’ svagato!

N° 538 – Richiesta della moglie del pope al pope stesso. Quello che ti è successo e arrivato fino a Onani. E adesso Kirjak lo va dicendo a tutti in giro. Preoccupati dunque! Quale sacrilegio avrà mai compiuto questo prete?

Di seguito illustrazioni delle Berjosty concesse dall’autore dell’articolo.

La scoperta delle Berjosty

Berjòsta: sopra come appare svolta e sotto il negativo della scritta Un’usad’ba novgorodese di piccole dimensioni  

Un usad

© 2007 di Aldo C. Marturano

La scoperta delle Berjosty a Novgorod

Bibliografia selezionata:

S. Franklin – Writing, Society and Culture in Early Rus, c. 950-1300, Cambridge 2002

C. Goehrke – Russischer Alltag, die Vormoderne, Zürich 2003

V. L. Janin – Srednevekovyi Novgorod, Moskvà 2004

A.C. Marturano – E’ caduta la Repubblica, Melegnano 2005

J. S. Rjabzev – Hrestomatija po Istorii Russkoi Kul’tury, XI-XVV vv., Moskvà 1998

Approfondimenti:

Visita la sezione delle scoperte straordinarie del sito. I luoghi misteriosi e le scoperte più strane nel mondo

Mistero dell’isola di Roanoke

Mistero dell’isola di Roanoke

Lungo la costa della Carolina del Nord vi era una colonia inglese fondata nel XVI secolo. Si trovava presso l’isola di Roanoke, che in seguito per motivi storici divenne una colonia per schiavi liberati.

Mistero dell’isola di Roanoke

Quest’isola ora è un sito archeologico con una storia da raccontare.

L’isola era soggetta a bruschi cambiamenti climatici. Il clima era mite e soleggiato con un aspetto verdeggiante in estate.

Mentre in inverno forti burrache si abbattevano sulle coste impedendo agli isolani di poter gestire in modo corretto il loro sostentamento.

Proprio per la probabile mancanza di cibo nell’isola il Capitano William Irish il 7 marzo 1589 decise di andare in loco a portare del sostentamento agli abitanti dell’isola di Roanoke.

Quando il suo equipaggio sbarcò sull’isola dei 117 isolani non vi era più alcuna traccia.

Le abitazioni erano andate in rovina ma con ancora gli effetti personali di chi le aveva abitate al loro interno.

Gli abitanti avevano protetto l’insediamento con un alta palizzata. Ma non vi erano tracce di combattimenti al suo interno nè tantomeno vi erano tombe o corpi di persone sull’isola.

Setacciando l’intera isola un’unica parola incisa su di un tronco dell’enorme palizzata “CROATOAN” diede adito alle più svariate ipotesi. Ipotesi incentrate sulla scomparsa improvvisa degli abitanti dell’isola di Roanoke.

La parola Croatoan poteva essere il nome di un altra isola nelle vicinanze in cui potevano essersi trasferiti gli isolani. Ma alcune persone asseriscono che solo la parola CRO era stata incisa su quel tronco.

Testimonianze narrano che il Capitano William Irish non riuscì a perlustrare tutta l’isola. Le avverse condizioni climatiche constrinsero la nave ad abbandonare l’isola molto in fretta.

Mistero dell’isola di Roanoke

Le ricerche dei coloni si protarsero fino 1607. Oltre ai coloni molti avventurieri, anche da luoghi lontani. cercavano un ipotetico tesoro nascosto nell’isola.

Le teorie più accreditate sono quella dell’effettivo trasferimento della colonia in un luogo meno avverso, la possibile morte della popolazione dovuta alla siccità. I coloni, che si unirono di loro spontanea volontà alle popolazioni indigene nei dintorni dell’isola furono spazzati via tutti da un uragano? Oppure vi è stata l’uccisione da parte dei nativi con la sepoltura effettuata in un altro luogo?

Per gli ufologi invece potrebbero essere stati rapiti in massa dagli extra terrestri. Forse si trattava di un’ abduction (rapimento) di massa. Oppure un passaggio interdimensionale che ha “spostato” gli uomini un altra dimensione.

Curiosità:

  • Nel film “Vanishing on 7 street” in cui un giorno quasi tutti gli abitanti della terra spariscono nel nulla rapiti da un entità non precisata. Uno dei protagonisti, un superstite, fa riferimento all’isola di Roanoke. Nel film racconta di come siano misteriosamente scomparsi i suoi abitanti lasciando solo la scritta CROATOAN.
  • La leggenda del triangolo delle Bermude ha origine da misteriore. Come sono misteriose le sparizioni di velivoli e navi in un determinato punto. Si tratta di una zona chiamata “triangolo delle Bermude”.
  • Un treno merci nella tratta Damasco ad Aleppo scompare nel nulla con tutto il personale e passeggeri nel dicembre del 1958.
  • Altri due treni merci partiti da Truro, in Cornovaglia, e diretti a Grimsby scompaiono nel nulla senza lasciare traccia nel febbraio del 1966.
  • In campo militare spesso scompaiono nel nulla persone come piloti o militari stessi. I velivoli come aerei e navi sia per trasporto militare che di persone o cose spesso scompaiono misteriosamente.

Approfondimenti:

Visita la sezione i luoghi misteriosi e le scoperte più strane nel mondo  nel sito. Ad esempio la foresta incantata in Russia, Naica, la grotta di cristallo, il mantello che rende invisibile…

Ivan Vassilli la nave maledetta russa

Ivan Vassilli la nave maledetta russa

 

Russia.

Esiste una documentazione su molte case infestate e perfino su automobili “maledette”, come quella che vide la morte dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia Chotek il 18 giugno 1914 a Sarajevo.

Ma che fu protagonista anche di molti altri episodi tragici per i suoi occupanti.

Anche per le navi “maledette” esiste una ricca casistica. Nessun episodio, però, supera in orrore le vicende della nave russa “Ivan Vassili” che, ai primi del Novecento, fu protagonista di una crociera allucinante che si risolse nella morte di parte dell’equipaggio.

Ciò che rende questo caso particolarmente impressionante è il fatto che i marinai “sentirono” distintamente la presenza a bordo di un qualcosa. Di un’entità che provocava loro inspiegabili attacchi di panico e angoscia e che sembrava richiedere, ogni volta, il sacrificio di una vittima umana. Come se il Male stesso fosse salito a bordo, simile a un viaggiatore clandestino, con lo scopo preciso di distruggere le vite dei suoi ignari compagni di traversata.

Ivan Vassilli la nave maledetta russa: una nave mercantile come tante

Il governo di Pietroburgo decide di servirsene come trasporto per rifornire di materiale bellico l’esercito stanziato in Estremo Oriente. Viaggiare da Kronstadt a Vladivostok, nella Provincia Marittima sul Mar del Giappone, è di per sé un’impresa nautica non indifferente, anche in tempo di pace, per cui sono necessarie esperienza e forza di carattere.

Si tratta di una traversata di 20.000 miglia attraverso i tre oceani del globo e richiede, pertanto, notevoli prestazioni sia agli uomini che alle macchine. E’ la stessa crociera che compirà, fra il 1904 e il 1905, la squadra navale dell’ammiraglio Roozestvenskij, diretta verso la battaglia di Tsushimma e il suo tragico destino.

Il comandante, uno scandinavo di nome Sven Andrist, sembra possedere le qualità necessarie per condurre a buon fine l’impresa.

Anche il comandante in seconda, Christ Hanson, è svedese, mentre l’equipaggio è in parte scandinavo e in parte russo.
Durante le settimane in cui l’Ivan Vassili, oltepassato il mare del Nord, scende lungo l’Atlantico, comunque, non accade nulla di particolare.

Poi, dopo che essa ha doppiato il capo di Buona Speranza ed è entrata nell’Oceano Indiano, cominciano a verificarsi degli episodi paurosi e insiegabili.

La “cosa” maledetta a bordo”

In un primo tempo si tratta di sensazoni ancor vaghe e imprecise, di un’inquietudine, di un nervosismo che si diffondono fra l’equipaggio senza cause apparenti o, almeno, senza cause spiegabili.

Si tratta di un’inquietudine dovuta alla percezione che ci sia qualcun altro o qualcos’altro, sulla nave. Oltre agli uomini e ai materiali destinati a Port Arthur, l’avamposto russa sulla penisola di Liao Tung, nel mar Giallo.

Il capitano della nave pensa in un primo tempo che le notizie sempre più minacciose che arrivano dal fronte della politica internazionale siano responsabili, almeno in una certa misura, di tale irrequietezza.

Col Giappone ormai sul punto di entrare in guerra contro la Russia, gli uomini hanno quasi la sensazione di andare a cacciarsi da sé nella bocca del leone. Ma ben presto deve ricredersi. La politica non c’entra, o c’entra ben poco, con l’atmosfera di crescente disagio che si sta diffondendo a bordo, si tratta di qualcos’altro, di qualcosa di totalmente diverso.

Diverso anche dalla ben nota superstizione che vige nell’ambiente marinaresco, ove si è incline a pensare che anche un semplice albatro, o un banale incidente nella cerimonia del varo, possano portare eterna sfortuna a una determinata nave.

E, nel caso della Ivan Vassili, non vi sono stati incidenti di quel genere nella sua precedente carriera, né segnali interpretabili in senso minaccioso negli scali toccati e nel corso del viaggio.

Quello che sta accadendo non è riconducibile a nulla di noto, sembra anzi trarre origine da una sfera misteriosa che non è neppure quella delle normali condizioni di esistenza, che non pare neppure umana.
L’equipaggio, d’improvviso, “sente” la presenza di qualcosa a bordo, qualcosa o forse qualcuno, senza riuscire a vedere nessuno.  E tuttavia avvertendo una sensazione di gelo accompagnata da terrore, angoscia, tensione insopportabile.

Ivan Vassilli la nave maledetta

Nell’impossibilità di definire meglio la natura di una tale presenza, elusiva eppure fortissima, ci limiteremo a chiamarla “la Cosa”.

Una cosa venuta non si sa da dove, né come, e che sembra uscita direttamente da un racconto del terrore di Howard Phillips Lovecraft.

Scrive uno storico dei misteri del mare, Vinent Gaddis:

“Non si sa che cosa fosse (e magari lo è ancora); dapprima provocò la sensazione improvvisa di avere vicino qualcuno, seguita da un terrore raggelante, paralizzante, che toglieva ogni energia, come fosse succhiata da una mostruosa pompa aspirante. A volte si potè scorgere una sagoma poco luminosa ed evanescente, vagamente rassomigliante a quella di un essere umano. Ma qualunque cosa fosse, senza dubbio si trovava a bordo.”

Le prime ondate di paura si succedono l’una all’altra e divengono sempre più forti. In qualche modo, tuttavia, la nave continua ad avanzare lungo la rotta stabilita, oltrepassa gli Stretti dell’Insulindia e risale, ormai nel pacifico, lungo il mar della Cina.

I marinai del turno di guardia notturno sono i più spaventati. Essi avvertono chiaramente che “la Cosa” è vicinissima, ma solo in pochi casi riescono a intravvedere una vaga figura che scompare tra le scialuppe di salvataggio, emanando un specie di debole luminosità.

Potrebbe essere una figura umana, ma nessuno ne è certo. L’unica cosa certa è che essa, anche quando si dilegua fra le ombre della notte, non se ne vuole andare. E’ sempre a bordo, in qualche luogo fra la prua e la poppa, forse sopra coperta o forse sotto.

Terrore  e morte senza scampo.

Immagine tratta dal web.

Ormai non manca più molto al porto russo più vicino, la base militare di Port Arthur.

Da tempo i fuochisti hanno gettato nelle caldaie roventi il combustibile ammassato negli appositi carbonili ed è stato necessario ricorrere ai capaci sacchi supplementari di carbone per compiere l’ultima parte della traversata.

Superati i caldi mari tropicali, la Ivan Vassili sta risalendo verso le medie latitudini, e il clima – specialmente la notte – va facendosi via via più fresco.

È in una notte limpida e tranquilla, tuttavia, che la tragedia, a lungo attesa e sempre rimandata, finalmente esplode. Accompagnata da un improvviso senso di gelo, un’ondata di panico quale non si era mai sentita prima afferra l’intero equipaggio e lo disperde, come un termitaio impazzito.

Gli uomini, tremanti di terrore, corrono in tutte le direzioni, pregano, gridano, si disperano.

Sembra che “la Cosa” li abbia afferrati con i suoi unghioni invisibili e li sbatta di qua e di là, crudelmente, come fa il gatto quando gioca col topo. Ad un certo punto un marinaio, incapace di reggere oltre alla tensione intollerabile, scavalca la murata e si precipita in mare, scomparendo ben presto tra le onde.

Allora, come se una stanchezza mortale, innaturale avesse contagiato l’intero equipaggio, la calma sembra tornare a bordo, più che la calma, un senso di’inesplicabile sfinimento, di cupo torpore.

È come se “la Cosa”, con la morte di quell’infelice, avesse saziato la sua mostruosa fame di vittime. Almeno per il momento: ma tutti avvertono che si tratta sempliemente di una tregua.
Scaricato una parte del materiale a Port Arthur e rifornitasi di carbone. L’Ivan Vassili salpa nuovamente le ancore per completare l’ultima parte della sua lunghissima crociera che deve condurla nella principale base russa dell’Estremo Oriente, quella di Vladivostok.

Ivan Vassilli la nave maledetta

Il panico sulla nave.

Nulla succede il primo giorno di navigazione dopo la partenza, e nulla il secondo; ma il terzo si scatena un altro assalto della “Cosa”, e di nuovo l’intero equipaggio ne è travolto.

Di nuovo urla, pianti, preghiere. In seguito di nuovo un correre insensato in ogni direzione ed ecco un marinaio che si getta in mare, incontro alla morte.

E, come la volta precedente, sembra che questa tragedia plachi per un poco la malvagia entità salita a bordo; esausti, instupiditi, gli uomini piombano in una sorta di fatalistica rassegnazione.
Tuttavia, non appena la nave entra nel sospirato porto di Vladivostok (letteralmente, “il Conquistatore dell’ Oriente”), méta finale della lunghissima crociera, ben dodici uomini dell’equipaggio tentano disperatamente di scendere a terra per abbandonare la nave “maledetta”.

Nessuno sembra disposto a rimanere a bordo un solo momento di più. Infatti, non hanno voluto aspettare nemmeno l’apertura dei portelli del carico.

Non così la pensavano, però, le autorità russe, per le quali il viaggio dell’Ivan Vassili non si può considerare affatto terminato.

La polizia portuale, pertanto, respinge spietatamente quegli uomini terrorizzati e li costringe a tornare a bordo. Malgrado le loro suppliche e le loro imprecazioni, come bestiame avviato al macello.

Mentre il rimanente del materiale viene scaricato sui moli di Vladivostok, i marinai della disgraziata nave sono tenuti sotto stretta sorveglianza.

L’ordine tassativo è che nessuno abbandoni quella trappola galleggiante, a nessun costo. Forse, le autorità portuali non credono affatto ai racconti sconnessi e, in verità, assai poco comprensibili dell’equipaggio. O forse il difficile momento politico non consente alcun ritardo o debolezza, dato che altri compiti attendono la tragica nave. Adesso l’Ivan Vassili deve far rotta per Hong Kong, in Cina; e, di lì, proseguire poi alla volta della costa orientale dell’Australia.

Un crescendo di orrori innominabili.

La traversata da Vladivostok ad Hong Kong attraverso il mar del Giappone, lo Stetto di Corea, il mar Cinese Orientale, lo Stretto di Formosa e il mar Cinese Meridionale, è un vero e proprio incubo. la “Cosa” è sempre a bordo, anzi sembra ormai addirittura scatenata.

Ben quattro uomini perdono la vita nel corso delle ondate di terrore che si spargono incontrollabili, con frequenza ormai sempre maggiore: tre marinai e lo stesso comandante.

Due dei marinai trovano la morte nel suicidio, come i colleghi che li hanno preceduti; il terzo muore addirittura di spavento: il suo cuore non regge alla prova cui è stato sottoposto.

Quanto al capitano, Sven Andrist, che pure è riuscito finora a mantenere, fino a un certo punto, un’ombra di autorità fra questi uomini terrorizzati, fedele al suo dovere, non regge oltre alla tensione insopprtabile. E si getta a sua volta in mare, preferendo la morte al tormento senza nome e senza volto che lo perseguita.

Finalmente l’esausta nave entra nel porto britannico di Hong-Kong, ceduto in affitto dal governo cinese nel 1898 per un periodo di 99 anni. E nulla e nessuno possono più impedire che quasi l’intero equipaggio sbarchi immediatamente e si allontani in fretta e furia dalla nave “maledetta”.

A bordo non restano che il secondo ufficiale, Christ Hanson – che assume le funzioni di comandante – e cinque soli marinai, tutti scandinavi.  A quanto pare meno superstiziosi dei loro colleghi russi o, forse, più affezionati al loro ufficiale.

Con un equipaggio così ridotto, evidentemente, non è possibile riprendere il viaggio per Sydney, ove l’Ivan Vassili deve imbarcare un carico di pregiata lana australiana.

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Il nuovo equipaggio.

Pertanto Hanson si dà da fare per arruolare un nuovo equipaggio di Cinesi e riesce a mettere insieme qualcosa che gli rassomigli. Quanto basta per salpare nuovamente le ancore e rimettersi in rotta per le Filippine e poi, doppiando l’estremità sud-orientale della Nuova Guinea, le coste dell’Australia.

Per un poco sembra che la nuova ciurma, ignara di quanto era accaduto a bordo nei mesi precedenti, non risenta di particolari suggestioni negative.

Ma il nuovo comandante, proprio nell’imminenza dell’arrivo a Sydney, paga un alto prezzo al suo coraggio o alla sua ostinazione. Estratta la pistola dal cassetto nella sua cabina, si spara alla testa e muore all’istante.

Secondo un’altra versione, meno attendibile, si impicca a una trave. In ogni caso, muore suicida poche ore prima di poter condurre l’Ivan Vassili nel porto australiano.
Prima ancora che la nave abbia terminato le manovre per accostare alla banchina e gettare l’ancora, l’equipaggio comincia ad abbandonarla come se fuggisse da un incendio a bordo.

In breve non rimane più nessuno.  Scandinavi e Cinesi non ne vogliono più sapere e sul mercantile “maledetto” non resta che un solo uomo, non sapremmo dire se più intrepido o temerario.

Si tratta di un certo Harry Nelson, che non vuole dare alla “Cosa” partita vinta e rimane ostinatamente a bordo. Forse, chissà, spera di ottenere una grossa ricompensa dalle autorità russe, se riuscirà a ricondurre in patria la nave col suo carico di notevole valore economico.

Ma per ben quattro mesi essa rimane immobile presso il molo di Sydney. Le voci corrono svelte per le bettole del porto, e perfino tra i rudi Australiani è difficile trovare qualcuno che osi sfidare la maledizione senza volto che sembra incombere sopra la volontà degli uomini.

L’ultimo atto della tragedia.

Finalmente, al quarto mese, e con molta fatica, si riesce a trovare un nuovo equipaggio e un nuovo capitano per l’Ivan Vassili, a dispetto di ogni superstizione e di ogni storia di fantasmi. E certo il nuovo capitano, di cui non ci è giunto il nome, deve essere un tipo molto coraggioso.

S tratta di attraversare tutta l’immensità dell’Oceano Pacifico e portare il carico di lana fino a San Francisco, in California. In qualche modo, forse anche grazie a una tregua degli attacchi da parte della misteriosa entità, la nave riprende il lunghissimo viaggio in direzione nord-est.

Ma essa non raggiungerà mai le coste americane. Ancora una volta, la “Cosa” torna ad esigere il suo macabro tributo di vittime.

Per tre volte, in pieno Oceano Pacifico, l’equipaggio è afferrato dai soliti, innominabili terrori, e per tre volte un uomo si getta in mare per cercarvi la liberazione della morte.

La quarta volta è proprio il nuovo capitano che, incapace di resistere a quella gelida morsa d’impalpabile orrore, si toglie la vita sparandosi in bocca un colpo di pistola.
A questo punto diviene impossibile mantenere la rotta verso San Francisco.

L’equipaggio, folle di paura, vuole tornare in porto per la via più breve. E Harry Nelson, che si è autonominato comandante, vira di bordo e mette la prua in direzione di Vladivostok.

Deciso a non lasciarsi sopraffare da quella forza misteriosa, egli tenta coraggiosamente di risolvere il mistero. Ispeziona tutta la nave (e quanti angoli segreti vi sono, nelle stive capaci di un grande piroscafo!).

Interroga i marinai; ma non riesce a venire a capo di nulla. In compenso, gli riesce la notevole impresa di riportare l’Ivan Vassili a Vladivostok, senza che vi siano state nuove vittime.

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L’equipaggio fugge dalla nave.

Ma non appena essa entra in porto, l’intero equipaggio sbarca precipitosamente. E questa volta né le baionette dei militari russi, né la promessa di un ingaggio a condizioni eccezionalmente favorevoli riescono a riportarli a bordo.

Per ultimo scende a terra anche il Nelson, l’unico membro dell’equipaggio originario.

Perfino lui ne ha avuto abbastanza, e si considera fortunato di aver riportato in salvo la vita. Nesun altro equipaggio verrà trovato per la nave “maledetta”.

Nel porto russo regna ovunque la convinzione che una entità demoniaca si trovi tuttora a bordo e nessun marinaio sarebbe disposto a rischiare d’imbarcarvisi, neanche per tutto l’oro del mondo. Passano gli anni e la nave è sempre lì, tristemente ferma in un angolo del porto.

Nell’inverno del 1907, improvvisamente, un incendio si scatena a bordo con estrema violenza, divorandola con terribile violenza. Non è un incendio casuale, ma doloso.

I marinai russi, convinti che un demonio si nasconda sull’Ivan Vassili, hanno deciso di purificarla col fuoco. E mentre il bastimento arde sinistramente nella notte, lo stanno ad osservare dalle barche tutto intorno, recitando preghiere ed esorcismi.

Prima che la nave scompaia per sempre in fondo al mare, dicono che un terribile grido si sia levato al di sopra del crepitio delle fiamme e dello schianto degli alberi sul ponte di legno.

È finita.

La nave “maledetta” non solcherà mai più i mari, non ucciderà e non farà impazzire più nessun essere umano.

Le ipotesi:

Il caso dell’Ivan Vassili, come abbiamo detto, è fra i più impressionanti nella storia della navigazione e la tipologia dei fenomeni che ne hanno sconvolto l’esistenza coinvolge diverse discipline.

Discipline fisiche, parapsicologiche, occultistiche e demonologiche. Cerchiamo di indicare le principali spiegazioni possibili, ben coscienti che la spiegazione vera. Forse, è al di là della nostra portata, poiché non tutto può essere spiegato di quanto accade nel mondo, e la mente umana è terribilmente piccola di fronte al mistero.

1) La spiegazione chimica.

Recentemente, per la precisione nell’ottobre del 2003, l’Accademia delle Scienze di Mosca ha avanzato una spiegazione perfettamente scientifica dei fenomeni che si verificarono a bordo della Ivan Vassili.

Secondo una comunicazione del prestigioso Istituto moscovita, tutto si ridurrebbe a un avvelenamento dell’equipaggio. Causato dalle esalazioni del legno di cui erano fatte le sovrastrutture della nave.

Gli studiosi russi hanno analizzato l’unico reperto esistente presso il Museo della Navigazione di Vladivostok la ruota di comando del timone, sottopendolo ad analisi chimiche, gascromatografiche e spettrografiche.

La coperta e le strutture superiori della nave erano costruite in legno di tek. Ed il professor Ilja Menzonev vi avrebbe rilevato tracce consistenti di alcaloidi (iosciamina e scopolamina) che posseggono accentuate proprietà allucinogene.

Anche gli alloggiamenti dell’equipaggio erano rivestiti in legno di tek. E questo spiegherebbe, secondo Menzonev e i suoi collaboratori, gli episodi di follia collettiva che si abbatterono sugli sfortunati marinai.

La psicosi collettiva, ben nota agli studiosi della psicologia delle folle, avrebbe fatto il resto.

Ma perché gli episodi fatali si sarebbero scatenati solo nel 1903? Più di sei anni dopo il varo della nave, mentre essa navigava in pieno Oceano Indiano?  Anche a questo interrogativo gli scienziati dell’Accademia di Mosca avrebbero una spiegazione.

Gli alcaloidi presenti nel legno della nave sarebbero rimasti inerti a causa della verniciatura in copale marina che isolava e impermeabilizzava le varie strutture di bordo.

Poi, l’usura del tempo e il passaggio dal clima freddo del mar Baltico a quello caldissimo dell’Oceano Indiano avrebbero provocato l’esalazione delle sostanze allucinogene. Con i ben noti, tragici effetti.

Mistero chiarito, dunque?

Forse.

A noi sembra, tuttavia, che questa “spiegazione” voglia forzare una interpretazione scientifica per una sorta di partito preso.

Per una sorta di impossibilità – da parte della cultura scientista oggi dominante – ad accettare la sfida del mistero.

  • Siamo proprio certi che il timone della Ivan Vassili, a cento anni di distanza dai fatti, abbia potuto fornire tali testimonianze all’analisi chimica?
  • Era forse, quella nave, l’unica ad essere rivestita di legno di tek?
  • O non era quella una prassi alquanto comune, sia nella marina russa, sia presso altre marine del tempo?
  • E perché, allora, non abbiamo altre testimonianze di drammi del mare paragonabili a quello della Ivan Vassili?
  • Perché quella sola nave vide scatenarsi i micidiali effetti delle esalazioni allucinogene?
  • Ancora: una intossicazione di tipo allucinogeno può spiegare la natura e l’entità dei fatti che si manifestarono a bordo?
  • Perchè proprio la pazzia furiosa, perché quel gettarsi in mare, perché quel togliersi la vita con la pistola?
  • È questo l’effetto di una intossicazione da alcaloide?
  • Come mai dopo ogni suicidio, una tregua momentanea ritornava a bordo?
  • Perchè un uomo come Harry Nelson, che fece tutto il viaggio da Pietroburgo a Vladivostok, e poi a Hong-Kong, a Sydney e di nuovo a Vladivostok, non ne risentì gli effetti?
  • Per quale motivo lui non si sparò né si gettò in mare. Anzi ebbe il sangue freddo di ispezionare la nave, comportandosi in maniera assolutamente lucida e razionale?

2) La spiegazione psicologica.

Suggestioni collettive, panico diffuso a partire da cause irrilevanti, contagio della tensione nervosa sarebbero alla base della “follia” dell’equipaggio.

E questi fattori avrebbero trovato alimento e terreno fertile nella stanchezza causata dal lungo viaggio. Nella tensione regnante a bordo (la paura della guerra vicina), nella superstizione – forse – di una parte dell’equipaggio.

Certo, almeno da quando Gustave Le Bon ha pubblicato la sua Psicologia delle Folle siamo ben consapevoli di quanto possa agire la psicosi collettiva, specie in situazioni di forte tensione nervosa ed emozionale.

Sappiamo anche di episodi storici in cui grandi agitazioni collettive si misero in moto senza causa apparente, anche su scala assai ampia.

Tale, ad esempio, il fenomeno della “Grande Paura” che percorse le campagne francesi nel 1788. Senza che sia mai stato possibile individuarne esattamente l’origine.

Ma ci sembra che questa pretesa spiegazione scambi le modalità con cui si è manifestata la “follia” dell’equipaggio della Ivan Vassili con le cause di essa.

Cause che rimangono del tutto in ombra e, quindi, inesplicabili.

Certo, a volte fenomeni reali si mettono in moto a partire da fenomeni immaginari.

Se si sogna vividamente che la propria casa sia in fiamme, si può anche essere spinti a gettarsi realmente dalla finestra per sfuggire all’incendio; di fatto, però, si tratta di eventi talmente improbabili da risultare praticamente impossibili.

Specie se pensiamo che la drammatica vicenda dell’Ivan Vassili non fu breve e non riguardò un solo individuo. Al contrario, si svolse lungo un arco di tempo di circa un anno e coinvolse alcune decine di persone. Compresi alcuni ufficiali di marina che avevano, per la loro stessa qualifica, un grado superiore d’istruzione.

Ed erano inoltre abituati a gestire le difficoltà di una lunga e spossante navigazione transoceanica.

3) La spiegazione spiritica.

Quello della Ivan Vassili sarebbe un tipico caso di “infestazione”, anche se accompagnato da fenomenologie estreme, tali da condurre alla morte di numerose persone.

Esistono, però – anche se rari e, comunque, meno spettacolari – altri casi che ad esso si possono paragonare.

La casa londinese al numero 50 di Berkeley Square.

Tra essi, quello della casa londinese al numero 50 di Berkeley Square. I cui inquilini cadevano vittime di uno stato confusionale che li conduceva alla morte.

Il demone del Tennesse.

E quello del “demone del Tennesse” del 1817-20, che perseguitò a morte John Bell a Robertson County.

Si tratterebbe di entità non umane e malefiche. Il cui scopo è nuocere intenzionalmente e pervicacemente agli esseri umani. Per la sola ragione apparente che si manifestano in una certa casa o un certo luogo e prendono in odio la presenza umana.

Di norma le manifestazioni si limitano alla comparsa di spiriti o alla percezione di rumori più o meno insistenti (come nel celebre caso del filosofo Atenodoro di Atene, riferito da Plinio il Giovane in una delle sue Epistole).

Oppure si tratta di manifestazioni di “poltergeist”, la cui interpretazione è ancor oggi controversa.

Per alcuni si tratterebbe di fenomeni psicocinetici “innescati” dall’energia psichica di qualche abitante della casa, in genere adolescenti nella fase puberale o pre-puberale. Per altri i rumori, e gli spostamenti di oggetti sono riconducibili alla vera e propria infestazione spiritica.

Comunque sono piuttosto rari, lo ripetiamo, i casi in cui si giunge ad esiti fatali per gli inquilini. Più spesso le forze che agiscono si limitano al lancio di oggetti senza colpire nessuno, talvolta con fenomeni di apporto. 

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Poltergeist?

Oppure aggrediscono gli esseri umani con schiaffi, percosse e – in qualche raro caso – graffi. Nel caso della Ivan Vassili, però, non si parla né di fantasmi, né di rumori, né – tano meno – di fenomeni tipo “poltergeist”.

Si parla invece della sensazione di una presenza aliena e malefica, di un brivido gelido, di un malessere, un’angoscia e un terrore inspiegabili.

Inoltre – ma non da tutti i membri dell’equipaggio – si parlò di una vaga figura aggirantesi sul ponte della nave. Era vagamente umanoide e in qualche misura luminescente.

Ciò è decisamente inconsueto. Si direbbe che la nave in questione sia stata oggetto di una tipologia d’infestazione nuova e diversa da tutte le precedenti.

4) L’ipotesi extraterrestre.

Una entità venuta dallo spazio si sarebbe insediata sulla nave.

Risucchiuando energia psichica dai membri dell’equipaggio. Un po’come nel film Horror Express (Spagna/Gran Bretagna, 1972, regia di Gene Martin. Solo che in quel caso l”entità saliva a bordo di un treno sulla ferrovia Transiberiana.

Secondo Salvador Freixedo, ufologo ex gesuita molto popolare nei Paesi di lingua spagnola. In Italia ha pubblicato, fra l’altro, Contattati dagli Ufo! e Le apparizioni mariane, Hobby e Work, 1993.

L’energia psichica emessa dagli umani in particolari condizioni emotive quali ansia, timore e simili, sarebbe utile o necessaria a tali entità di cui costituirebbe un vero e proprio “nutrimento”.

Dunque ne avrebbero continuamente bisogno, senza farsi alcuno scupolo circa le conseguenze sugli umani. Come noi non abbiamo scrupoli, ad esempio, verso gli animali da allevamento.

Si tratta di extraterrestri?

Ovviamente vi sono almeno due maniere di interpretare una eventuale presenza extraterrestre:

Come quella di esseri fisici che provengono dallo spazio per qualche loro misterioso disegno.

O come quella di creature spirituali che filtrano da altre dimensioni del reale. E che assumono un’apparenza fisica quando vogliono entrare in contatto con gli umani. Un po’ come potrebbero fare creature angeliche o diaboliche. Ingannandoli deliberatamente circa la loro reale natura.

Questa seconda interpretazione permette di dare ragione di movimenti assolutamente “impossibili” degli O.V.N.I. (Oggetti volanti non identificati) dal punto di vista fisico. Nonché le loro subitanee apparizioni e scomparse ed altri fenomeni relativi agli “incontri ravvicinati”.

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5) L’ipotesi demoniaca.

In questo caso non si tratterebbe di un’invasione di spiriti. Di defunti o di entità non umane che vivono su altri piani di realtà, più “sottili”, paralleli e in qualche modo contigui a quello degli umani. Ma di una vera e propria presenza diabolica.

Ossia della forza maligna per eccellenza, così come essa viene concepita in alcune religioni e particolarmente nella cristiana.

Gli equipaggi della Ivan Vassili, nel corso della sua tragica odissea, furono costituiti anche da Asiatici e, forse, da indigeni dell’Oceania. Ma Scandinavi, Russi e, più tardi, Australiani, erano di religione cristiana – greco-ortodossa e anglicana.

Per la precisione (mentre la credenza nel demonio è più sentita nel cattolicesimo).

Comunque il contesto culturale in cui la vicenda fu vissuta dai protagonisti non esclude interpretazioni diverse da quelle che, del fenomeno, essi diedero a suo tempo. A patto che si riconosca la possibilità teorica della possessione demoniaca come ipotesi di lavoro. Anche da parte degli studiosi di tendenza laica o, in genere, non confessionale.

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Il Vangelo parla di numerosi casi d’infestazione demoniaca.

Altri casi, assai documentati, esistono in letteratura e non solo nella vita di personaggi religiosi (San Giovanni Bosco, il curato d’Ars, Padre Pio) ma anche in quella di persone comuni. Perfino di bambini e adolescenti. Come lo sconcertante caso dei fratellini di Illfurt, in Alsazia, nel 1863. (Di cui parla ampiamente Corrado Balducci nel suo libro Gli Indemoniati, Roma, ed. Carlini., 1959).

Ad ogni modo, per la Ivan Vassili non si tratterebbe della possessione di un individuo, ma di una nave. 

Le conseguenze per l’equipaggio.

I singoli individui che essa trasportava ne risentirono le conseguenze in misura diversa. Alcuni in modo tale da essere spinti a togliersi la vita, altri da restarne solamente terrorizzati. In apparenza, senza una ragione per tale diversità di esiti.

D’altra parte, se si ammette che il Male metafisico esista.

E che esso sia in grado, a determinate condizioni, di penetrare nella sfera umana e di esplicarvi un’azione devastante per il solo piacere di nuocere. In linea di principio non vi sono obiezioni al fatto che esso si manifesti mediante la possessione di un singolo individuo. O di un gruppo di persone, o anche di un mezzo di trasporto (automobile, nave) o di un edificio (casa d’abitazione, chiesa) attraverso il quale possa agire sulle persone che vi si trovano.

Riassumendo.

La spiegazione chimica è di tipo prettamente fisico. Quella psicologica di ordine psichico. Entrambe sono di genere naturalistico. Quella spiritica può essere di genere naturalistico oppure di genere metafisico.

A seconda che si interpreti la parapsicologia come lo studio scientifico di realtà misteriose ma, in ultima analisi, naturali. Oppure come propedeutica all’indagine su di un altro ordine di realtà: metafisico, appunto.

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La spiegazione extraterrestre

La spiegazione extraterrestre si può considerare, dal punto di vista metodologico, una variante della precedente.

Anche qui è possibile interpretare i fenomeni considerati come opera di creature aliene, ma pur sempre fisiche e pertanto appartenenti al mondo naturale. O come dovute a creature spirituali che penetrano nel nostro piano di realtà da altre dimensioni, non di natura fisica.

La spiegazione demonologica, infine, è di tipo esclusivamente metafisico. E presuppone un orizzonte interpretativo aperto a trecentosessanta gradi sul mistero dell’Essere. In cui creature diaboliche (o, all’opposto, angeliche) occupano non piani di realtà contingui e paralleli al nostro, ma radicalmente diversi e remoti.

Rispondendo a gerarchie spirituali che seguono leggi e perseguono finalità non paragonabili a quelle vigenti nel mondo fisico e materiale.
Così, passando dalla prima alla seconda, alla terza, alla quarta e infine alla quinta spiegazione del fenomeno in questione, si può constatare un processo ascendente verso piani di realtà via via più remoti dal nostro, quello cosiddetto “quotidiano”.

Operare una scelta fra una delle quattro spiegazioni possibili, pertanto, risponde necessariamente a una gerarchia di valori e credenze da parte dello studioso.

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Conclusioni.

Con buona pace della pretesa “oggettività” dell’esperienza scientifica. (Ma oggi gli stessi scienziati, almeno nel campo della fisica sub-atomica, riconoscono l’impossibilità di un esperimento. Anzi di una semplice osservazione, che non modifichi automaticamente le condizioni della realtà fisica osservata).
In definitiva, dovremmo essere consapevoli che accostarci ad una piuttosto che a un’altra delle possibili spiegazioni può dirci almeno altrettante cose su colui che studia il fenomeno. Sulle sue aspettative, sulle sue intime convinzioni, sul suo orizzonte culturale e spirituale, di quante non ne riveli sul fenomeno che è l’oggetto specifico del suo studio.

Francesco Lamendola Ivan Vassilli la nave maledetta

NOTA BIBLIOGRAFICA.

  • GADDIS, VINCENT, Il triangolo maledetto e altri misteri del mare, Milano, Armenia Editore, 1977, pp. 106-108 (ripubblicato con il titolo Prigionieri degli abissi, Milano, Armenia, 2002, p. 111-113; il titolo originale è Invisible Horizons, 1965
  • BRYAN, BOBETTE, Ivan Vassili, la nave infestata,
  • DE WITT-MILLER, R., Forgotten Mysteries, New York, 194s;
  • Riv.Coronet; , dicembre 1942;
  • Riv. American Weekly, 14 aprile 1940;
  • WINER, RICHARD, Ghost Ships, Berkeley, 2000;
  • BRYAN, BOBETTE, Ivan vassili, ved. http//www.underworldtales.com/ivan.htm;
  • CABELLO HERRERO, RAFAEL -GARCIA BAUTISTA, JOSE’ MANUEL, vedi Http//www.editorialbitacora.com/bitacora/vapor/vapor.htm.

L’immagine di copertina dell’articolo Ivan Vassilli la nave maledetta è tratta da:

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I bambini vedono cose che noi non vediamo

I bambini vedono cose che noi non vediamo

di Francesco Lamendola

Da tempo, per non dire da sempre, gli adulti ‘sanno’ che ai bambini sono accessibili dei piani di realtà che a loro sono negati; molte fiabe e molte favole del folclore delle singole culture nasce da questa consapevolezza o, almeno, da questa intuizione.

Più recentemente, anche sulla scia del film L’esorcista, che narra la storia di una possessione demoniaca di cui è vittima una ragazzina americana di nome Regan, i poteri paranormali dei bambini sono tornati al centro dell’interesse della cultura occidentale. C’è chi, sulla base di tali poteri, pensa di aver risolto una volta per tutte l’enigma del poltergeist, lo spirito folletto che mette a soqquadro case e mobilio, provoca rumori inspiegabili, volo di oggetti, ecc.

Altri invece, ricordando il caso delle due sorelline inglesi che vedevano e pesino fotografavano le fate, ma che anni dopo (proprio come le sorelle Fox, iniziatrici dello spiritismo negli Stati Uniti) confessarono di aver architettato solo un gioco, sostengono che tali poteri nascono solo dalla nostra credulità.

Ad ogni buon conto, vi è tutto un filone della cultura cosiddetta New Age che si è impadronito dell’argomento, intravedendo – non a torto – la possibilità di profittare di un potenziale mercato in rapida espansione.

È possibile fare il punto in modo abbastanza equilibrato sulla questione leggendo il libro del francese Jean-Paul Bourre I poteri misteriosi dei bambini (Milano, Armenia Editore, 1983).

I bambini vedono cose che noi non vediamo

La letteratura otto-novecentesca aveva già intuito le potenzialità ‘inquietanti’ dell’argomento; basti pensare al celeberrimo romanzo di Henry James The turn of the screw (Il giro di vite), storia ambigua quant’altre mai di una bambinaia alle prese con due bambini posseduti dallo spirito di un defunto malvagio.

O forse, secondo i punti di vista, storia di una bambinaia sull’orlo della follia che proietta le sue inquietanti ombre mentali su due innocenti fanciulli.

Pochi, invece, conoscono un romanzo giovanile del grande storico delle religioni Mircea Eliade, Signorina Christina, ispirato direttamente dal folclore romeno , che narra la storia di una giovane donna morta da più di vent’anni e divenuta un vampiro.

È uno scontro all’ultimo sangue tra le forze della vita e quelle della morte, in cui la posta in gioco è la salvezza dell’anima dei protagonisti, in particolare del giovane protagonista maschile che deve affrontare, tra le pieghe di una apparente quotidianità, gli aspetti più oscuri e minacciosi della femminilità.

Un posto a parte occupa, nel romanzo, il personaggio di Simina, una ragazzina che è posseduta da forze malefiche e che mette a durissima prova le capacità di resistenza di Egor, l’eroe designato della situazione.

Particolarmente conturbante è la scena in cui Simina, esercitando una vera e propria forma di ipnosi che piega ed umilia le capacità di resistenza della mente di Egor, obbliga questi a inginocchiarlesi ai piedi e a baciarle i piedi.

Simina è la sorella minore di Sanda, la fidanzata di Egor; ma fra i due futuri cognati si instaura fin da subito una atmosfera elettrica, inquietante, fatta di sguardi taglienti e di minacciose allusioni:

Egor sa che Simina è una strega, ed ella ha compreso di essere stata ‘smascherata’.

Ma la partita è ancora tutta da giocare.

I bambini vedono cose che noi non vediamo

Se non si trattasse di un duello fra l’eroe positivo che rappresenta i valori del bene e una antagonista – che incarna il male nella sua forma più sottile eppure più totale, il male diabolico – si direbbe che esista una torbida relazione inespressa fra i due personaggi.

Il libro è stato pubblicato in francese nel 1978 col titolo Mademoiselle Christina, ma la stesura originale in romeno risale al 1935 (col titolo Domnisoara Christina), e certe implicazioni di natura sessuale non potevano essere esplicitate.

Tuttavia il lettore le percepisce benissimo (un po’ come la sensualità involontaria della Gerusalemme liberata che voleva essere, nelle intenzioni di tasso, un poema rigorosamente morale).

Ne citiamo una pagina a titolo di esempio (trad. dal romeno di Simonetta falcioni, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 76-79.

“La bambina lo aveva ascoltato con un sorriso di infinita pietà ed ironia.

Quando Egor si rivolse a lei, Simina sostenne il suo sguardo, cercando di nascondere il sorriso, come si vergognasse della vergogna di lui.”

– Lei sa molto bene che la signorina Christina – disse sottolineando la parola – che la signorina Christina non è mai stata vecchia? –

” – Né tu né io sappiamo niente di lei- la interruppe brutalmente Egor.

” – Perché parla così? – si stupì candidamente Simina. – Però l’ha veduta?

“I suoi occhi brillarono diabolicamente e il sorriso trionfante le illuminò tutto il volto

-Mi attira in un trabocchetto. – pensò Egor – Se mi dice ancora qualcosa, la prendo stretta al collo e la minacciò di ucciderla, finché non mi confessa tutto quel che sa. –

” – Ha visto il suo ritratto – aggiunse dopo una pausa ben calcolata.

La signorina Christina è morta molto giovane. Più giovane di Sanda. Più giovane e più bella – continuò lei.

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“Egor rimase confuso per qualche istante, non sapeva cosa avrebbe ancora dovuto dire, come costringere Simina a tradirsi, per poterle fare delle domande.

” – Le piace Sanda, non è così? -, chiese bruscamente Simina.

” – Mi piace e mi sposerò con lei – rispose Egor.

E tu verrai a Bucarest, sarai la mia piccola cognata e ti alleverò io! Vedrai allora come spariranno alla tua testa tutte queste allucinazioni?

“Non capisco perché mai si arrabbia con me – si difese timidamente Simina.

La minaccia, o forse il tono alto e virile di Egor, la avevano intimidita.

Guardò con un certo timore intorno a sé, come se aspettasse un segno di aiuto.

D’un ratto si tranquillizzò e cominciò a sorridere. Guardava fisso un angolo della rimessa.

I suoi occhi ora erano più vitrei, più distanti.

” – È inutile che guardi – disse di nuovo Egor.

– È inutile che aspetti? Tua zia è morta da molto tempo, mangiata dai vermi e mischiata alla terra. Mi senti, Simina? –
La prese per le spalle e quasi le gridò le parole nelle orecchie.  Ebbe anche lui paura della voce incrinata, delle parole che le aveva gridato.

La fanciulla rabbrividì.

Sembrava si fosse fatta più pallida e le si contrassero le labbra.

Ma come allentò la stretta, si riprese.

Guardò nuovamente oltre le spalle di Egor, guardò affascinata, felice

“Come mi ha scosso forte – si lamentò portandosi la mano alla fronte.

– Mi fa male anche la testa? coi bambini è facile essere forti – soggiunse più piano, come per sé.
“- Voglio farti tornare in te, piccola strega che noin sei altro – si accese di nuovo Egor. – Voglio che ti vadano via dalla testa le allucinazioni, per il tuo bene, per la tua salvezza?

I bambini vedono cose che noi non vediamo

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” Sa molto bene che non sono allucinazioni – disse questa volta Simina in tono provocatorio. Scese dalla vettura e passò davanti a lui con infinita compostezza.
” – Non aver fretta, andiamo insieme – le disse Egor.

– Ero venuto a cercarti. La signora Moscu mi ha mandato a cercarti?

Non sapevo che ti avrei trovato a ripulire dalla polvere un calkesse di un centinaio di anni? –

” – È del 1900, di Vienna – disse Simina, senza voltarsi, calma, seguitando a camminare per la scuderia. – 1900-1935, trentacinque anni appena? –
“Erano arrivati alla porta.

Egor l’aprì completamente e lasciò che la fanciulla passasse avanti.

” Mi ha mandato a cercarti perché Sanda è ammalata – continuò lui.

Sai che Sanda sta male?

Le sorprese un piccolo sorriso vendicatore.

” – Non ha niente di grave – soggiunse in fetta. – Solo l duole la testa e sta a letto?”

La fanciulla non gli rispose. Procedevano affiancati per il grande cortile, sotto il freddo sole autunnale.”

– A proposito – disse Egor prima di giungere a casa – volevo dirti qualcosa che ti riguarda.

“L’afferrò per il braccio e chinò di molto il capo verso di lei, per poterle mormorare vicino alle orecchie:
” – Volevo dirti che se succede qualcosa a Sanda, se? Capisci? Allora per te è finita.

Naturalmente  tutto questo non rimane tra noi. Puoi dirlo altrove, ma non alla signora Moscu, non ha nessuna colpa? –

” – Questo lo dirò a Sanda, non alla mamma – disse chiaramente Simina.

– Le dirò che non capisco perché ce l’ha con me!? –

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“Cercò di divincolare il braccio. Ma la mano di Egor si conficcò più profondamente nella carne. Provava una vera gioia ad infiggere le dita nella sua carne morbida, acerba, diabolica.

La bambina si morse le labbra per il dolore, ma non una lacrima inumidì i suoi occhi freddi, metallici.

Questa resistenza fece perdere ad Egor la padronanza di sé:
” – Ti tormenterò, Simina, non ti ucciderò così alla svelta – sibilò lui.

– Ti strozzerò solo dopo averti tolto gli occhi e strappato i denti ad uno ad uno? Ti torturerò con un ferro infuocato.

Questo dillo altrove, dillo a chi sai tu? Vediamo se?
“In quell’istante sentì un dolore così violento al braccio destro, che lasciò andare la bambina.

Tutto il corpo perse vigore. Le braccia gli pendevano flosce, abbandonate sui fianchi.

E sembrava non si rendesse conto di dove si trovasse, in quale mondo fosse?

“Vide Simina scuotersi, stirarsi le pieghe del vestitino, sfregarsi il braccio su cui le sue dita avevano lasciato le tracce.

La vide anche pettinarsi con calma i capelli col palmo della mano, sistemarsi i riccioli e stringersi un fermaglio nascosto che le era saltato per strada. Simina fece tutto questo senza guardarlo.

E neppure si affrettava; come se lui non fosse mai esistito.

Si diresse verso la casa a passo svelto, sciolto, e tuttavia di una nobile grazia. Egor la guardò stupefatto, finché il suo piccolo essere si perse nell’ombra della veranda.

Si dirà che tutto questo è letteratura, soltanto letteratura.
Ebbene vi è uno psichiatra inglese che, dopo quarant’anni di pratica professionale, ha lavorato a Londra come consulente di un Centro psico-pedagogico.

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Il suo nome è Arthur Guirham; ha scritto numnerose pubblicazioni e vari libri:

A theory of disease; The nature of healing; Christ and Freud; Cosmic factors in disease; Silent union; Man: divine or social; The Gibbet and the Cross; The cathars and reincarnation.

Opere che hanno ottenuto un vasto successo di pubblico e di critica, non solo in Gran Bretagna, ma anche all’estero. In Italian è stato tradotto Obesession, del 1972, dalla Casa editrice Tattilo di Roma, nel 1974 (traduzione di Aldo Durante).

Guirdham è uno psichiatra decisamente eterodosso perchè sostiene che il diavolo e le forze del male possono essere veramente all’origine delle nevrosi; non solo: sostiene che i bambini possiedono il discutibile privilegio di vedere quelle forze in azione, e che possono restarne traumatizzati per tutta la vita.

In genere essi non osano raccontare tali esperienze agli adulti, anche perché sanno che non verrebbero creduti; e così se le portano dentro per sempre, senza poterle condividere con nessuno.

Egli stesso sostiene di aver avuto una tale esperienza ‘rovesciata’ del numinoso, quando era un bambino piccolo, e di esserne rimasto segnato; ma afferma che questo gli ha permesso di capire il dramma di tanti bambini afflitti da gravissimi disturbi del comportamento, che altrimenti rimangono inspiegabili anche all’esame più meticoloso.

Le visioni diaboliche appaiono ai bambini di notte, perché la notte è il momento in cui le forze del Male si manifestano agli umani; e da ciò ha origine il caratteristico disturbo del pavor nocturnus.

La psichiatria moderna tende a minimizzare riducendolo nei termini di una interpretazione strettamente razionalistica come fantasie, incubi, visione di film o ascolto di fiabe che hanno turbato l’immaginazione del bambino.

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Ma nessuno è disposto a prenderlo un po’ più sul serio, cioè come spia di una esperienza reale e non semplicemente onirica o fantastica.

“Non so a che età precisa io stesso abbia avuto l’esperienza satanica.

Non credo di aver avuto più di sei o sette anni. Me ne stavo sdraiato a letto, quando mi sentii come attirato e terrorizzato da una ‘presenza’ in un’altra stanza.

Mi alzai dal letto, calamitato da quell’orrore invisibile, e aprii la porta della mia camera. Quello che vidi, è indimenticabile. Dapprima, notai la sua faccia.

Era più piccola di un viso umano, ma le proporzioni erano le stesse. Era ricoperta da un pelame blu-grigio fittamente intessuto. Da esso sprigionava una luce blu.

Il colore, l’aura, l’aggrovigliata impellicciatura non erano nulla in confronto della malvagità del suo sorriso. Quel sorriso non solo era diabolico, ma accattivante.

Il suo corpo era come quello di un uomo, solo più sottile e di altezza più modesta. Questo corpo era, poi, inclinato leggermente in avanti in posizione invitante.

Esso era coperto da capo a piedi dallo stesso pelame blu-grigio e irradiava dappertutto come una fluorescenza bluastra. Le gambe erano differenti.

‘Egli’ non aveva piedi umani. Le gambe si assottigliavano verso il basso fino a terminare in una specie di sottili moncherini.
“Ma io ero talmente ipnotizzato dal suo volto e dal suo maligno sorriso che non badai molto ai suoi piedi.

Ora so che erano unghiati.

Non so come riuscii a tornarmene a letto. Non sono sicuro se fu la stessa notte che cominciò la mia ossessione, ma certamente dovette essere subito dopo. Mi inginocchiai a recitare le mie preghiere.

I bambini vedono cose che noi non vediamo

Ma, dopo essermi rimesso a letto, mi rialzai immediatamente. Mi inginocchiai, pregai e ritornai a letto.

Feci questo innumerevoli volte. Continuai finché giacqui a letto completamente esausto e incapace di fare ulteriori sforzi per alzarmi.

“Questo è un tipico cerimoniale ossessivo e non c’è da meravigliarsi circa la sua natura e la sua finalità.

Quel che è importante è che sopraggiunse molto presto, subito dopo, cioè, l’esperienza precipitante. Io ho avuto la sensazione di essere in presenza di un ‘Grande Male’.

Ci sono andato incontro, l’ho sentito ed esso ha provocato su di me un’impressione indelebile. Ho reagito al male non con la colpa, ma con il panico nudo e crudo. (?)

“Trent’anni dopo, al consultorio clinico per l’infanzia, potei riscontrare in che misura altri bambini avevano terrori notturni. Ci son voluti cinquant’anni per scoprirne il significato.

“Un terrore notturno (pavor nocturnus) viene definito come un’illusione che compare quando il bambino è sul punto di addormentarsi. Esso è completamente diverso da un incubo.

Se viene usata la parola ‘illusione’, invece di ‘allucinazione‘, è perché in molti casi l’esperienza si basa su qualcosa di concreto. Il bambino può scambiare i motivi disegnati sulle carte da parati o sulle imposte per facce orribili e terrorizzanti.

Ma questa descrizione dell’illusione è ingannevole e, per certi aspetti, un po’ vigliacca.

Spesso un terrore notturno non è basato su qualcosa presente nell’ambiente. Completamente a torto, evitiamo la parola ‘allucinazione’, perché suggerisce la psicosi, cioè un disturbo mentale conclamato.

Sarebbe meglio per noi, e più illuminante, se accettassimo il fatto che un bambino normale può essere allucinato di notte. Così facendo, potremmo saperne di più sulle cause delle malattie mentali degli adulti.

Questa possibilità è gettata via, sin dall’inizio, da false idee riguardo a ciò che costituisce un’allucinazione. Quest’ultima viene definita: una falsa percezione.

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Ciò implica che il paziente percepisce ciò che di fatto non esiste.

Tale definizione è priva di senso. Un paziente, come ognuno di noi, vede ciò che vede. Quel che cercano di dire gli psicologi accademici, che costruiscono queste definizioni, è che il paziente delirante (allucinato) vede qualcosa che la maggioranza non vede.

Ma ciò implica che chiunque abbia visto uno spirito o un’apparizione è inevitabilmente allucinato, e che molte opere d’arte sono fondamentalmente allucinatorie.

Una sedia vista da Van Gogh è talmente differente da come la vedo io che potrebbe essere benissimo un oggetto diverso. E in effetti, nel senso che il grande artista vede quello che gli altri non vedono, la sua visione può essere considerata allucinatoria in quanto non è fondata sulle effettive qualità materiali del momento.

Ma l’uso del termine ‘allucinatorio’, in tal senso, sembra poco intelligente e pericoloso.

“Ciò che il bambino vede nel suo terrore notturno è reale per lui.

E, molto spesso, è reale nel senso più stretto della parola. Ciò che egli sta vedendo è la simbolizzazione visiva del Male in forme che sono pervenute a noi attraverso eoni di tempo e che sono indipendenti dalla cosiddetta capacità immaginativa del bambino.

Le facce che vede sono invariabilmente cattive.

Sono di satiro e di diavolo. Ed è notevole come bambini poco dotati dal punto di vista del disegno siano capaci di esprimere i loro terrori notturni.

Facce orrende e sogghignanti sono ricordate da bambini per i quali una simile fraseologia rappresenta il culmine della capacità descrittiva.

È come se essi avessero percepito perla prima volta una realtà vivida e descrivibile. Queste facce sogghignanti e satiresche come gargouilles sono la forma più comune di terrore notturno.

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Ci sino anche profili con abbozzi di testa ma senza connotati, semplici scheletri, figure spettrali ed animali biologicamente spenti a causa della loro distorsione simbolica.

Comunque sia la loro forma, la caratteristica fondamentale del terrore notturno è la minaccia che manifesta la sua ‘orrorosità’ e l’imminenza del Male che suggerisce.
“Questi terrori notturni si annoverano tra i primi contatti che ha il bambino sul piano psichico (parapsicologico). Sicuramente si tratta di fenomeni più medianici che psicologici.

Il bambino li percepisce perché è più ricettivo dell’adulto a esperienze occulte. Ciò è dovuto al fatto che nei primi anni di vita la ‘psiche’ e la personalità sono meno strettamente legate l’una con l’altra che in età più tarda.

La psiche è allora più libera di agire, dato che non è ancora resa insensibile dallo sviluppo rigido della corazza della personalità. Queste allucinazioni sopraggiungono, poi, di notte, perché sul punto di cadere nel sonno, il contatto tra psiche e personalità è ulteriormente allentato.

Se il bambino è sonnambulo, l’influenza direttiva della psiche è ancora più forte. (?)

“Perché – si chiede – il terrore notturno è tanto importante nell’origine dello stato ossessivo?

Poiché la reazione difensiva del bambino è immediata e ritualistica.

Nella sindrome morbosa già nota come ‘corea’, il paziente soffre di contrazioni spastiche, improvvise, quasi elettriche. Queste colpiscono soprattutto la faccia ed il collo, ma anche le spalle vengono spesso interessate.

Il corpo intero può inoltre essere in questi movimenti, attualmente meglio conosciuti come ‘tic’ ossessivi’ che come ‘corea’. Comunque, anche se può essere interessato tutto il corpo, è molto più frequente che la faccia, il collo, le spalle e le braccia siano la sede del processo morboso.

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Forse, dopotutto, vi è un’altra spiegazione, che potremmo prendere seriamente in considerazione, come ipotesi di lavoro, se non altro perché essa presenta il vantaggio di essere più semplice e di implicare un minor numero di contraddizioni.

Cioè che i bambini conservano, fino a una certa età (approssimativamente, fino a quando iniziano il loro percorso scolastico), la facoltà di una seconda vista, che forse in tempi passati era caratteristica di tutti gli esseri umani, in ogni età della loro vita.

Forse, questa seconda vista consente loro – non a tutti, e solo in particolarissime circostanze – di gettare uno sguardo fugace di là dal muro.

Se così fosse, potremmo servirci di questa loro facoltà per comprendere meglio tanti altri fatti, apparentemente inspiegabili, della realtà sensibile, e per assumere un atteggiamento più umile e meno dogmatico nei confronti della mole enorme delle cose che non sappiamo, o meglio che non siamo in grado di spiegare con il solo logos strumentale e calcolante.

Scritto da Francesco Lamendola

Il mistero delle isole Kerguelen,il diavolo Devonshire

Il mistero delle isole Kerguelen

di Francesco Lamendola

(Articolo pubblicato sulla Rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, fondato da Silvio Zavatti, vol. 1, 2007, pp. 57-71.)

Il fatto:

Maggio 1839, emisfero Sud.

Nel cuore del temibile inverno australe, alcuni uomini stanno avanzando sul terreno diseguale di una sperduta e deserta isola di origine vulcanica (1).

Là dove le acque azzurre dell’Oceano Indiano si confondono tumultuosamente con quelle verde scuro dell’Antartico. Le cui onde spazzate dai venti dominanti dell’Ovest s’imbiancano di spuma.
Mano a mano che si allontanano dalla riva, il fragore del mare si attenua e alla fine scompare.Ed ogni cosa sembra stemperarsi in un’atmosfera strana ed arcana, sotto un cielo plumbeo e uniforme.

Uno spesso strato di neve copre il terreno ed i suoni giungono attutiti dall’atmosfera umida e fredda e dal soffice mantello candido che ricopre ogni cosa, come se tutta la scena fosse per incanto scivolata in un’atmosfera senza tempo.

Del resto, non vi sono altri rumori che quelli prodotti dagli insoliti visitatori:

un gruppetto di ufficiali e marinai della nave di Sua Maestà britannica Erebus. Vi è un veliero di sole 370 tonnellate e appena 26 uomini d’equipaggio. E la sua gemella, Terror.(2)

Minuscole le navi ed esiguo il loro carico umano. Ciò fa apparire ancor più opprimente, per contrasto, il grandioso ma triste spettacolo di quella natura selvaggia. Spettacolo cui a suo tempo è stato imposto, non a caso, il nome eloquente di Isola della Desolazione.(3)

Cartina delle isole tratta dal web

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Nessuna fronda di verzura stormisce al soffio incessante dei venti australi. Poiché gli alberi non allignano in quei luoghi inospitali. E le uniche foreste esistenti sono quelle fossilizzate. Un’ estrema e patetica testimonianza di un tempo remotissimo in cui il clima dell’isola dovette essere ben più dolce e accogliente. Probabilmente di tipo sub-tropicale.(4)

L’unica pianta che si avvicini in qualche misura alle dimensioni arboree era una curiosa specie di cavolo gigante. Detto cavolo delle Kerguélen (5)

Che non era sfuggito alla vigile attenzione del medico di bordo, sir John Dalton Hooker (6)

Allora un giovane pressochè sconosciuto ma che più tardi sarebbe divenuto un botanico famoso. Tra i più celebri del suo tempo. (7) Allo stesso modo, il candido manto di neve non appare segnato dal passaggio di alcun essere vivente. Poiché nessun mammifero terrestre vive in quelle remote latitudini. Né tanto meno alcun rettile o anfibio, animali che abbisognano di un clima decisamente più mite. (8)

Mano a mano che i visitatori ardimentosi di quel luogo enigmatico si allontanano dalla riva del mare. E si lasciano alle spalle il rumore della risacca e la rassicurante sagoma della loro nave alla fonda nel porto naturale (9).

La ricognizione verso l’interno si trasforma in una marcia dai contorni vagamente surreali.

Il profondissimo, millenario silenzio che avvolge ogni cosa.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

 

La quiete innaturale, indecifrabile che sembra tutto avvolgere. La consapevolezza che forse mai piede umano ha preceduto i loro passi danno veramente a quegli uomini la sensazione d’esser giunti agli estremi confini del mondo.

Eppure, nonostante la intensa nota di malinconia che lo pervade, il paesaggio reca in sé una sottile sfumatura di fascino.

Difficile da definire ma nondimeno evidente.

Quasi una bellezza arcana e primigenia che la Natura possente ha voluto imprimere perfino in quelle lande desolate.

Mentre alzano lo sguardo lungo le pendici del monte Ross, che spinge la sua vetta ghiacciata a duemila metri d’altitudine (10). Sotto una densa coltre di nubi grigie, gli uomini si sentono terribilmente piccoli, fragili, in un certo senso. Così direbbe Lucrezio – casuali (11). Come ospiti inattesi di uno spettacolo grandioso che non per essi era stato allestito.

Ecco le parole con le quali, circa un secolo dopo, un ufficiale della Marina da guerra germanica descriverà quei luoghi e la loro strana atmosfera.

“Un ruscello gorgogliava tra sassi e ciuffi d’erba lungo il sentiero. Intorno a noi le montagne si alzavano avvolte dalle nubi? Una squallida desolazione regnava sui monti e nelle valli.

Eppure, per quanto triste e brullo, il paesaggio non era privo di fascino per chi non vedeva da tanto tempo né un monte né un pianoro e sicuramente non ne avrebbe più visti per molti mesi.” (12)

Certo, le cose sarebbero state molto diverse se l’Erebuse la sua gemella, il Terror fossero approdate laggiù qualche mese prima. Durante l’estate antartica, le pianure s’ingentiliscono grazie ai vivaci colori di numerose piante fiorite, come Azorella, Pringlea e Festuca (13).

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Mentre l’aria risuona dei richiami incessanti di migliaia e migliaia di uccelli migratori venuti di lontano, primo fra tutti l’albatro gigante. (14)

Ma ora tutto appare deserto, abbandonato. Come avvolto da un’atmosfera senza tempo. E sembra che l’aria fredda e umida, il cielo basso e la terra silenziosa siano sospesi, in attesa di qualcosa.

Ed ecco che il comandante di quel piccolo drappello, il trentanovenne sir James Clark Ross, si arresta improvvisamente senza poter trattenere un fortissimo moto di stupore. Mentre uno sguardo di meraviglia e d’incredulità passa dai suoi occhi a quelli dei suoi compagni, l’uno dopo l’altro.

Perché hanno visto tutti, chiaramente, qualche cosa che supera la loro capacità di comprensione. Qualche cosa che assolutamente non avrebbe dovuto essere lì.

Sul mantello di neve immacolata che copre ogni cosa si stagliano, nette, delle impronte di un qualche animale. Più precisamente, delle orme di zoccoli. (15)

Si allontanano dalla regione costiera per spingersi verso l’interno e si perdono in direzione delle alture.

Orme di zoccoli, laggiù, in capo al mondo!

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E tutto lascia pensare che siano anche recenti, poiché, diversamente, la neve le avrebbe rapidamente cancellate.

I marinai britannici stentano a credere ai loro stessi occhi: come è possibile una cosa del genere?

Le ipotesi

Sorpresa e affascinazione sono, dunque, i sentimenti che James Clark Ross e i suoi compagni provano, in quel maggio del 1840, davanti alle impronte di zoccoli sulla neve dell’isola Kerguélen.

Dopo un comprensibile momento di stupore e quasi d’incredulità, si decide di tentar di andare a fondo nell’enigma. Così inaspettatamente presentatosi in quella remota terra dell’emisfero australe.

Il gruppo si mette a seguire le impronte, ma ben presto è costretto a fermarsi, deluso. Esse scompaiono improvvisamente su un terreno roccioso, non c’è più niente da fare.

Bisogna tornare indietro senza aver potuto dare una risposta alla domanda.

Qual è l’origine di quelle impronte? Dal momento che sull’isola non vi sono né ponies né altri animali in grado di lasciare orme simili?
James Clark Ross scrive subito un rapporto sullo strano episodio, ma esso passa praticamente inosservato.

La relazione del viaggio antartico di Ross, qualche anno dopo, viene bensì letta e apprezzata da un selezionato pubblico di specialisti. Ma non diviene mai quel che si dice, oggi, un best-seller.

E così, quasi certamente, il mistero delle impronte dell’isola Kerguélen sarebbe stato del tutto dimenticato. Se quindici anni dopo, quando il pubblico inglese è travolto dall'”affaire” delle cosiddette impronte del diavolo del Devonshire (febbraio 1855), qualcuno non si ricordasse di quella vecchia e strana storia.

E’ un corrispondente del London Illustrated News a rispolverare il rapporto dell’esploratore James Clark Ross. Ed a richiamare su di esso l’attenzione sovreccitata dei lettori del Regno Unito (27). Ma di questo parleremo fra breve.

Dobbiamo ora tentare di dare una qualche risposta agli interrogativi che il “mistero delle Isole Kerguélen” sollecita.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

E cercheremo di farlo con mente sgombra, per quanto possibile, da pregiudizi, senza per questo esser disposti a cadere nella credulità.
Un fatto naturale richiede, fino a prova contraria, una interpretazione di tipo naturale. Questa è una ovvia premessa di carattere metodologico.

E tuttavia il concetto di “evento naturale”, dopo le scoperte di fisici come Einstein ed Heisenberg, si è enormemente arricchito di valenze ignorate all’epoca della Rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Il problema è che, mentre gli specialisti delle varie scienze (matematica, fisica, scienze naturali e scienze della psiche) sono perfettamente consapevoli di non poter studiare i fatti del mondo naturale.

Con lo stesso punto di vista di Francesco Bacone, Galilei, Cartesio o Newton. Gran parte dei divulgatori scientifici e, attraverso di essi, del pubblico dei non-specialisti, sono rimasti ancorati a una visione scientifica alquanto datata.

Quella, in sostanza, impostasi in Occidente, verso la fine del XIX secolo, con la filosofia del Positivismo.

Questa premessa era necessaria perché il campo del possibile, nella scienza contemporanea, si è molto allargat. Rispetto a quanto comunemente ammesso prima della “scoperta” delle matematiche non euclidee. Delle particelle sub-atomiche e della dimensione inconscia della psiche.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

La teoria dei quanti, nel campo della fisica, o il riconoscimento dei casi di personalità multipla. In quello della psicologia, per fare solo due esempi, hanno letteralmente rivoluzionato la nostra visione del mondo naturale.

Tuttavia era giusto, crediamo, almeno accennarvi, prima di tentare una modesta indagine sulla questione che ci eravamo proposta.
Ora, se è giusto – in una ricerca scientifica – partire dalla spiegazione più semplice di un determinato fenomeno naturale.

La prima ipotesi cui si è tentati di ricorrere per spiegare il mistero delle impronte viste dagli uomini della spedizione antartica di J.C.Ross è che esse siano state lasciate sulla neve da un animale introdotto dall’uomo.

Abbiamo ragioni per ritenere verosimile una tale ipotesi?

In linea di massima, saremmo portati a rispondere affermativamente a questa domanda. Nonostante il parere negativo espresso da James Cook circa le possibilità di sopravvivenza di animali introdotti dall’Europa’(vedi nota n. 24 del presente articolo.

Dopo la visita del capitano Cook, nel 1776, l’arcipelago delle Kerguélen divenne il punto d’incontro di cacciatori di foche e di balene. Che le usarono – come molte altre isole sub-antartiche – quale base provvisoria durante le loro spedizioni di caccia. Che potevano durare anche tre anni. (28)

Erano i tempi d’oro di quel genere di battute. Immortalati, fra l’altro, da romanzi famosi come Moby Dick di Herman Melville. Gli studiosi di botanica, e particolarmente di fitogeografia, sanno bene quali danni irreparabili quei cacciatori di foche e di balene portarono agli ecosistemi delle isole oceaniche.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Perché, oltre a compiere stragi indiscriminate di cetacei e di pinnipedi, spesso fino alla totale estinzione, essi avevano preso l’abitudine di sbarcare a terra, in quelle isole, animali domestici destinati all’alimentazione degli equipaggi, particolarmente ovini e suini. (29)

Le capre e, in misura minore, le pecore e i maiali, si arrampiacavano dappertutto. Sterminando (ove ce n’erano) i piccoli mammiferi indigeni e gli uccelli più indifesi. Com’era successo al Dodo, uccello non volatore, dell’isola Mauritius, nel 1600. (30)

Ad essi si aggiungeva l’opera nefasta dei ratti. Viaggiatori clandestini di tutte le navi europee e nemici implacabili delle faune indigene.

Capre e pecore, poi, brucavano voracemente la vegetazione, sino a rendere brulle e spoglie delle isole un tempo ammantate di una ricca vegetazione. Tale fu il caso, ad esempio, dell’isola di S: Elena e dell’isola di Pasqua fra quelle sub-tropicali. Ed almeno in parte, della Nuova Zelanda, fra quelle di clima temperato.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

L’importazione casuale di piante infestanti di origine europea e quella volontaria di piante destinate ad uso agricolo dava poi il colpo di grazia a quei delicatissimi ecosistemi.

Che l’isolamento millenario aveva reso particolarmente vulnerabili rispetto ai competitori esterni. A tutto questo si aggiunga che gli Europei introducevano non solo animali da allevamento.

Ma anche selvaggina selvatica, come il cervo nella Nuova Zelanda o addirittura la renna nella Georgia Australe. Che i Norvegesi avevano trasformato in una stazione baleniera permanente. Con quali conseguenze sul mantello erboso originario, è facile immaginare.

Le impronte sull’isolaDunque, non si può escludere del tutto che le impronte viste sull’isola Kerguélen da Ross nel 1840 fossero dovute a una pecora o a una capra. Più difficile, ache se non impossibile, pensare a un maiale rinselvatichito. Animali portati da qualche baleniere allo scopo di potersi rifornire di carne fresca nel corso delle lunghe battute di caccia nei mari australi. In un’epoca in cui l’unico sistema di conservazione della carne era quello di metterla sotto sale e non poteva, comumque, garantirne la commestibilità a tempo indefinito.

Tutto chiarito, allora, e svelato il mistero?

In realtà, le cose non sono proprio così facili

Infatti, questa spiegazione offre indubbiamente il vantaggio della semplicità, il che corrisponde a una nota formula della filosofia scolastica. Secondo la quale non bisogna moltiplicare il numero degli enti quando è possibile spiegare la realtà con un numero più ristretto di cause. (31)

D’altra parte, essa presenta un inconveniente tutt’altro che trascurabile. E’ puramente congetturale e ha dalla sua il criterio della verosimiglianza logica, ma non quello della verifica concreta. 

Una finestra sull’ignoto

Proviamo allora a capovolgere, per pura ipotesi, il nostro paradigma scientifico. E ad ammettere che, se nelle isole Kerguélen non vi erano capre, pecore, maiali o addirittura cervi. E che le impronte di zoccoli sulla neve non possono essere spiegate con la presenza di tali animali.

Sul piano del ragionamento logico ristretto, questa è un’acquisizione concettuale non meno logica. Anzi si direbbe molto più logica, della precedente.

Quello che stride è il quadro di riferimento generale. I dati che abbiamo immesso, per così dire, nel computer; cioè che in quei luoghi non esistevano mammiferi di alcun tipo.

E dunque?

E’ giunto il momento di ritornare alla vicenda delle impronte del diavolo del Devonshire.

Che indirettamente aveva riportato di attualità, e messo a conoscenza di un vasto pubblico, la misteriosa scoperta fatta da J. C. Ross nell’isola di Kerguélen.

La mattina dell’ 8 febbraio 1855 gli abitanti del Devon scoprirono, uscendo di casa nel freddo intensissimo di quell’inverno eccezionale, una serie di impronte di zoccoli nella neve. Impronte disposte in linea retta e riconoscibili lungo una distanza totale di circa 80 miglia.

Non assomigliavano alle impronte di alcun animale conosciuto. Ma né questo fatto né la straordinaria lunghezza della traccia, che attraversava le campagne innevate in linea retta, rappresentavano la cosa più sconcertante.

Quest’ultima era costituita dal fatto che le impronte si snodavano una dietro l’altra. Tagliando diritto anche in presenza di ostacoli. Davanti ai muri dei giardini, per esempio, esse si fermavano per continuare dall’altra parte.

Come se lo sconosciuto animale li avesse saltati senza minimamente deviare. Anzi, come se li avesse “attraversati”.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

E la neve sulla cima dei muri era rimasta vergine!

In alcuni villaggi, poi, le impronte a ferro di cavallo erano ben visibili sui tetti delle case.

A parecchi metri d’altezza; oppure si fermavano davanti alla soglia di una capanna. 

Per ricomparire sul retro oppure ancora scomparivano davanti a un mucchio di fieno. E poi riprendevano al di là di esso, sempre in linea retta, come se la creatura vesse compiuto un salto prodigioso.

La popolazione ne fu terrorizzata:

furono organizzate, ma invano, delle battute di caccia con fucili e forconi. E ben presto nacque fra il popolo la voce che il Diavolo, in quella buia e fredda notte d’inverno, avesse passeggiato sulla Terra con piedi di caprone. Come ai tempi dei Sabba delle streghe.
Naturalmente anche il mondo scientifico fu messo a rumore, e parecchi naturalisti, tra cui il celebre Richard Owen, vollero dire la loro.

Si parlò di un tasso.

Ma quale animale selvatico poteva correre in in linea retta per la bellezza di 80 miglia? Coprendo una tale distanza in una sola notte?

E saltare a quel modo al di là dei muri e dei covoni di fieno, per poi salire sui tetti delle case? (33)

Qualcun altro ipotizzò che un pallone sonda si fosse alzato. Forse per disguido, dal porto militare di Devonport la sera del 7 febbraio, e che dei sacchetti pendenti da delle funi avessero lasciato le famose impronte. (34)

Certo che il vento doveva esser stato un prodigio di costanza. Per aver sospinto il pallone sonda così a lungo senza mai deviare né a destra né a sinistra!

Si parlò anche di un uccello. Di un canguro fuggito da uno zoo. Oppure di un buontempone in vena di scherzi fuori del comune.

Tutte ipotesi praticamente insostenibili e tutte rispondenti a una medesima logica.

Il mistero delle isole Kerguelen ed il diavolo del Devonshire

Il mistero non è una dimensione della realtà che va accostata con l’indagine razionale ma anche con umiltà e consapevolezza dei limiti umani. Bensì un nemico da aggredire, una sfida intollerabile da rintuzzare.

Un’inquietudine che va rimossa ad ogni costo per riportare la percezione del reale entro i binari rassicuranti di ciò che è già conosciuto.

In alttre parole, per la metalità scientista è preferibile cadere nell’assurdo. Un tasso che copre 80 miglia in poche ore, saltando muri e scalando edifici. Piuttosto che ammettere, anche solo per ipotesi, che si possa sollevare per un momento il velo della razionalità codificata dal paradigma scientifico dominante.

E si badi che il caso delle impronte del Devonshire non è affatto un unicum nella storia recente (per non parlare di quella antica). Per fare un solo altro esempio, ma se ne potrebbero fare parecchi, ricordiamo che il Times di Londra del 14 marzo 1840 (dunque, due mesi prima della scoperta di James Clark Ross nei mari antartici) riferì di impronte identiche a quelle trovate poi nel 1855.

Questa volta sulla neve di Glenorchy, nelle Highlands scozzesi. Con l’unica differenza che sembravano prodotte da una creatura che avesse proceduto a balzi piuttosto che al trotto. (35)

E ci siamo limitati alla sola Gran Bretagna. Ma impronte strane, o mostruose, sono state segnalate in ogni parte d’Europa e nell’arco di vari secoli.

E allora?

Certo non saremo noi a tirare in ballo l’ufologia, o l’occulto. Magari in chiave diabolica (per quanto rifiutiamo l’atteggiamento sprezzante di aprioristico rifiuto, proprio a molti divulgatori scientifici di formazione neopositivista).

Tornando al caso delle isole Kerguélen, gli elementi in nostro possesso sono troppo scarsi per arrischiare una spiegazione del fenomeno. Sia di tipo naturalistico sia d’altro genere. Mancano, ad esempio, i calchi o le riproduzioni delle impronte, mentre esistono nel caso del Devonshire di quindici anni dopo. (36)

Il fatto che le spiegazioni razionali avanzate si siano dimostrate poco convincenti non autorizza a saltare con ingenua disinvoltura nel campo dell’irrazionale.

Forse, però, nonostante tutto possiamo ricavare un insegnamento di carattere generale da questa intricata vicenda. Vicenda sollevata quasi per caso da una spedizione scientifica del 1840 in una dimenticata isola sub-antartica.

Ed è il seguente: vi sono cose per le quali la scienza naturale stenta a dare una spiegazione e che stenta perfino a contestualizzare nel paradigma scientifico perlopiù accettato. Non perché la scienza non disponga al momento di strumenti di ricerca sufficientemente sofisticati. Ma perché l’orizzonte concettuale della ragione calcolante è intrinsecamente inadeguato non solo a comprenderli, ma addirittura ad accettarli.

Stralcio tratto dall’articolo di Francesco Lamendola

Approfondimenti:

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